Nella settimana dal 23 al 28 novembre, a tre mesi dalla morte della Collega EBRU TIMTIK, la Rete Regionale dei Comitati per le Pari Opportunità degli Ordini Avvocate/i dell’Emilia Romagna intende rinnovare la solidarietà alle colleghe e ai colleghi che in Turchia sono detenute/i o minacciate/i a causa dell’esercizio della Professione Forense.
L’iniziativa di sensibilizzazione è promossa dalle Rete Regionale dei CPO E.R. e troverà svolgimento nei distretti territoriali per il tramite dei rispettivi Comitati attraverso la lettura e la divulgazione del seguente comunicato – sulla condizione che migliaia di avvocate/i stanno tuttora soffrendo in Turchia a causa delle politiche e delle leggi promosse dall’AKP, principale partito al Governo presieduto da Recep Tayyd Erdogan – nonchè delle lettere di Aytac Unsal e di Ebru Timtik, magistralmente interpretate dalla Compagnia “Attori & Convenuti” nello spettacolo <<Fame di libertà>>.
IL DIRITTO DI DIFENDERE
Esercitare la Professione Forense non significa solo rispettare la scadenza degli atti, ricevere i clienti e praticare le aule giudiziarie.
Esercitare la Professione Forense ha un senso ben più alto: difendere i diritti; difendere il diritto di libertà che, purtroppo, non è mai scontato.
Le avvocate e gli avvocati sono sentinelle chiamati a vigilare sui diritti, sul loro riconoscimento e sulla loro tutela, senza alcun condizionamento.
Il diritto di difendere è oggi messo a dura prova in vari Stati (in Pakistan, in Iran, in Cina, in Egitto, in Ucraina, in Messico, ecc.), ma è in Turchia che sta subendo le più dure e atroci limitazioni perché il sistema giudiziario è fortemente condizionato dall’Esecutivo.
Il senso di appartenenza che unisce i difensori dei diritti e dunque tutti noi avvocate e avvocati, ci spinge a non rimanere silenti e indifferenti di fronte alla privazione della potestà effettiva di svolgere l’assistenza tecnica e professionale in qualsiasi processo, in modo da assicurare il pieno contraddittorio e la rimozione di ogni ostacolo per far valere le ragioni della parte/cittadino: qualsiasi sia la sua condizione.
Solo in tal modo al diritto di difesa viene riconosciuta la funzione essenziale di architrave dello Stato di Diritto.
Dopo la riforma degli Ordini Professionali promossa dal Governo turco nell’estate scorsa che ha smembrato le organizzazioni provinciali forensi in più organismi e che costituisce un chiaro tentativo di indebolimento degli Ordini stessi, il partito del Presidente Erdogan ha proposto al Parlamento l’approvazione di un progetto di legge che, tramite la sospensione o la radiazione, mira a escludere dagli Ordini Forensi le avvocate e gli avvocati che difendono le persone accusate di terrorismo o di sovversione del sistema politico, ritenendole/i implicitamente complici dei medesimi reati.
Uno degli aspetti più agghiaccianti, evidenziato dal Rapporto sulle persecuzioni di massa in Turchia pubblicato dal CNF nel febbraio scorso,è l’identificazione e la sovrapposizione tra mandato difensivo e accuse mosse all’assistito, con arresto del difensore per le stesse accuse mosse all’imputato.
E vale allora la pena di ricordare che in Turchia l’accusa di “terrorismo” è stata rivolta minatori, vittime di incidenti sul lavoro, oppositori al progetto di devastazione urbanistica denominato Gezi Park, donne che hanno semplicemente reclamato il diritto all’autodeterminazione, persone ancora che attraverso un post o un twit si sono permesse di esprimere critiche alle politiche del Governo e, più in generale, persone che hanno rivendicato il rispetto dei diritti umani.
Ma la Procura di Ankara è stata ancora più tempestiva e il 12 settembre scorso ha emesso 55 mandati di arresto; 48 contro avvocate/i e 7 contro praticanti, con l’accusa di terrorismo per aver agevolato appartenenti alla organizzazione FETHO che nel luglio del 2016 promosse manifestazioni di protesta contro il Governo per la ripetuta violazione dei diritti umani, definite dal Presidente Erdogan un tentativo di colpo di Stato, e che per questo, diedero la stura a licenziamenti di massa e ad arresti – fra gli altri – di legali, magistrate/i, giornaliste/i e professori universitari. E per la prima volta, l’ordine di cattura si basava sul fatto di “avere difeso affiliati all’associazione di Gulen e di aver cercato di manipolare i processi in favore dell’organizzazione terroristica con la scusa di avvalersi della legge>>. Insomma, di aver svolto la loro Professione in modo indipendente e autonomo.
Per arrestare i 55 colleghi si sono mobilitati 1500 poliziotti che hanno proceduto all’ordine facendo irruzione nelle abitazioni private, negli Studi Legali e nei locali del Tribunale di Ankara.
Arresti effettuati in violazione delle stesse norme vigenti in Turchia, senza la presenza dei delegati del Presidente dell’Ordine degli Avvocati durante le perquisizioni, senza la possibilità di nominare difensori di propria fiducia ma obbligati a quelli indicati dalla Procura.
Arresti che arrivano pochi giorni dopo il discorso del Presidente Erdogan alla cerimonia di apertura del nuovo anno giudiziario dove ha affermato che <<Coloro che agiscono come avvocati di terroristi non possono agire loro stessi come terroristi. Se lo fanno, ci deve essere un prezzo da pagare>>.
Ancora; il 20 novembre scorso trentuno avvocate/i iscritti agli ordini di Diyarbakir, di Sirnak e di Adiyaman sono state/ arrestate/i nell’ambito di un’inchiesta della Procura Generale di Diyarbakir che ha condotto complessivamente al fermo di oltre cento persone, tra le quali anche giornaliste/i e appartenenti a ONG, accusati di aver costituito “un’associazione illegale”. Le/i colleghe/i arrestate/i hanno subito perquisizioni e sequestri anche dei computer e dei documenti informatici in essi contenuti, in violazione delle regole poste a tutela del segreto professionale. L’attacco ai diritti umani e a chi li difende è evidente.
Il CNF e numerosi C.P.O. degli Ordini Forensi italiani, insieme ad altre 21 associazioni legali hanno sottoscritto una dichiarazione congiunta per chiedere l’immediata liberazione delle colleghe e dei colleghi arrestati e detenuti (https://arrestedlawyers.org/2020/09/16/joint-statement-on-the-arrest-of-48-lawyers-and-7-intern-lawyers-in-ankara-turkey-16-9-2020) ma anche perchè il Governo e l’Autorità Giudiziaria turca rispettino pienamente i principi fondamentali delle Nazioni Unite relativi al ruolo dell’Avvocato, e per i quali:
– ” Le autorità pubbliche assicurano che gli avvocati: a) siano in grado di svolgere tutti i loro doveri professionali senza ostacolo, intimidazione, molestia o indabita interferenza; b) possano viaggiare e consultare liberamente i propri clienti, sia in patria che all’estero; c) non siano fatti oggetto, nè siano minacciati, di essere sottoposti a procedimento oppure a sanzioni economiche o altro per qualsiasi azione intrapresa in conformità con i loro obblighi e principi professionali riconosciuti e con la loro deontologia ” (principio n. 16);
– “Qualora la sicurezza degli avvocati sia minacciata in conseguenza dell’esercizio delle loro funzioni, essi devono essere adeguatamente salvaguardati dalle autorità” (principio n. 17).
Gli ultimi 31 avvocati di arrestati a novembre vanno così ad aggiungersi ai 1535 indagati, di cui oltre 600 detenuti e 441 condannati a pene detentive decennali per un totale di oltre due mila anni di carcere.
Contro la violazione dei diritti umani e per il diritto a un equo processo, Ebru Timtik e Aytac Unsal – come i musicisti del Yorum Group – hanno deciso di impegnare la loro esistenza intraprendendo la c.d. dead fast – sciopero della fame fino alla morte -. L’accusa del loro arresto e la motivazione della condanna, coincidono nel fatto di aver agevolato un’associazione terroristica per aver svolto la funzione di difensori di attivisti dei diritti umani.
Le loro vicende sono le stesse di altre centinaia di colleghe e colleghi che ancora si trovano in carcere. Ognuna/o di queste/i ha subito un processo che è stato definito dagli osservatori internazionali, <<una parodia dello Stato di Diritto>> in cui i testimoni sono rimasti anonimi senza possibilità di contraddittorio per la difesa, mentre le prove documentali sono state ammesse come genuine nonostante l’origine incerta.
La collega Ebru Timtik, arrestata nel 2018, è morta il 27 agosto scorso dopo 238 giorni di sciopero della fame, senza che le venisse concesso il diritto a consultare un medico di fiducia. La scarcerazione temporanea, il 3 settembre scorso, del collega Aytac Unsal dopo oltre 200 giorni di digiuno, non fa venir meno la preoccupazione per la sua sorte e quella di altre/i colleghe/i.
Portiamo con noi lo spirito del sacrificio di Ebru Timtik, valorosa collega, con cui condividiamo il peso di una toga, non inutile orpello ma simbolo dell’universale diritto della difesa, anche a chilometri di distanza.
20 novembre 2020
RETE REGIONALE DEI C.P.O. dell’E.R.