In questa sentenza delle Sezioni Unite dalla prosa nitida e rigorosa dell’Estensore Giorgio Fidelbo che appaga il piacere intellettuale di chi legge e soddisfa nelle conclusioni raggiunte dalla Corte, viene da pensare che abbiamo, allo stato almeno, perso un grande giudice costituzionale che avrebbe integrato una Consulta in questo momento in preoccupante deficit di penalisti.
Le Sezioni Unite giungono alla conclusione che l’art. 384, comma 1 del codice penale si applica anche al convivente more uxorio.
Molto complesso e ricco di riferimenti interni e convenzionali il percorso argomentativo della Corte Suprema, che spesso deve toccare questioni proprie anche del diritto di famiglia.
Innanzitutto va ricordato che la conclusione della Corte condivide e fa proprio l’orientamento finora minoritario nella giurisprudenza di legittimità e va di contrario avviso alle conclusioni rassegnata dal Procuratore Generale nella persona dell’Avvocato Generale Pietro Gaeta un giurista di notevole livello.
Nel caso de quo non era applicabile l’art. 384, comma 2 del codice penale che tutela già anche il convivente more uxorio per effetto della sentenza Corte cost. n. 416/1996, in quanto si trattava di vicenda in cui a seguito di incidente stradale l’imputata aveva riferito di essere alla guida di veicolo scontratosi con altro per proteggere il convivente datosi alla fuga e con patente di guida revocata (le dichiarazioni dell’imputata in quel momento non potevano essere precedute da alcun avviso ed erano state rilasciate a fini essenzialmente risarcitori, da cui l’imputazione di favoreggiamento personale).
In seguito è riportata in parte qua la motivazione della sentenza della Seconda Sezione 30.04.2015 n. 34147/2015, Agostino che aveva concluso nello stesso senso ed era la più riccamente argomentata tra quelle dell’orientamento minoritario che riteneva applicabile la causa di non punibilità al convivente more uxorio.
Le Sezioni Unite hanno affrontato e risolto molti ostacoli ed obiezioni anche assai serie per giungere alla conclusione di cui si è detto.
Le Sezioni Unite prendono atto delle distinzioni operanti a livello interno e convenzionale tra famiglia legittima tutelata dall’art. 29 Cost. e famiglia di fatto tutelata dall’art. 2 Cost. e dal fatto che gli ordinamenti interni anche ai sensi dell’art. 8 e 12 della CEDU hanno ampia facoltà di trattare e regolamentare diversamente la famiglia legittima e quello di mero fatto (diritto interno e convenzionale sul punto non sono affatto in frizione tra loro e consentono perfettamente di non equiparare la famiglia legittima con quella di fatto).
La Corte Suprema in motivazione valorizza la previsione dell’art. 9 della Carta di Nizza ormai vincolante per gli Stati della UE, che prevede il diritto di formarsi una famiglia nonché quello “di sposarsi” tutelati come libertà fondamentali riconosciute dal diritto Eurounitario e che contribuiscono ad attribuire pari dignità ad ogni forma di convivenza.
Una obiezione sollevata dalla Procura Generale era quella della impossibilità di applicare analogicamente una norma eccezionale come quella di cui all’art. 384, comma 1 del codice penale senza violare l’art. 14 delle Preleggi.
Le Sezioni Unite replicano che l’art. 384 c.p. non prevede una causa di non punibilità o una causa di giustificazione, ma in accordo con la migliore Dottrina, una causa di esclusione della colpevolezza.
In buona sostanza vi è un comportamento ritenuto inesigibile da parte del consociato collegato al fondamentale principio del nemo tenetur se detegere. Tra l’altro la norma sostanziale va letta in strettissima connessione con l’art. 199, comma 3 c.p.p. norma che a sua volta funge criterio interpretativo della norma sostanziale.
Una volta escluso che la norma di cui all’art. 384, comma 1 c.p. rappresenti una causa di non punibilità in senso stretto, nulla impedisce che la stessa possa essere applicata analogicamente in bonam partem (non hanno carattere eccezionale le norme di esclusione della colpevolezza) in quanto l’art. 25 Cost. prevede un divieto assoluto di analogia penale in malam partem.
Del resto identico è il conflitto interiore e l’inesigibilità del comportamento alternativo tanto per il coniuge che per il convivente more uxorio (convivenza che deve essere rigorosamente provata nel processo).
Filippo Poggi
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ESPOSITO Antonio – Presidente –
Dott. IANNELLI Enzo – Consigliere –
Dott. BELTRANI Sergio – rel. Consigliere –
Dott. CARRELLI PALOMBI Roberto – Consigliere –
Dott. DI MARZIO Fabrizio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
35.6.3. Il terzo motivo è fondato.
35.6.3.1. Può ritenersi pacificamente emergente ex actis che R. A. fosse convivente more uxorio del coimputato P.D. (cfr. per tutti, f. 489 s. e 534 ss.).
35.6.3.2. E’ noto al collegio che, ai fini della determinazione dei “prossimi congiunti” (art. 307 c.p., comma 4) cui può essere applicata la causa di non punibilità prevista dall’art. 384 c.p., comma 1, in relazione ad alcuni reati contro l’amministrazione della giustizia, tra i quali quello contestato all’imputata, la dominante giurisprudenza di legittimità, con l’autorevole avallo di quella costituzionale, continua a far riferimento alla sola famiglia legittima, escludendo la possibile rilevanza della convivenza more uxorio: il principio è stato, ad esempio, ribadito da Sez. 6^, sentenza n. 35067 del 26 ottobre 2006, CED Cass. n. 234862, per la quale “non può essere applicata al convivente more uxorio resosi responsabile di favoreggiamento personale nei confronti dell’altro convivente la causa di non punibilità operante per il coniuge, ai sensi del combinato disposto dell’art. 384 c.p., comma 1, e art. 307 c.p., u.c.; il che manifestamente non si pone in contrasto con i principi di cui all’art. 3 Cost., avuto anche riguardo a quanto già affermato dalla stessa Corte costituzionale con pronunce n. 124 del 1980, n. 39 del 1981, n. 352 del 1989, n. 8 del 1996, 121 del 2004″.
35.6.3.3. La Corte costituzionale (sentenze n. 352 del 1989, n. 8 del 1996 e n. 121 del 2004) ha reiteratamente negato l’illegittimità della mancata equiparazione, ai fini che qui interessano, del coniuge al convivente more uxorio, sia perchè la censura fondata sull’irragionevolezza della mancata equiparazione dovrebbe mirare ad una decisione additiva che implicherebbe l’esercizio di potestà discrezionali riservate al legislatore, sia perchè esistono, nell’ordinamento, ragioni costituzionali che giustificano un differente trattamento normativo tra i due casi, trovando il rapporto coniugale tutela diretta nell’art. 29 Cost., mentre il rapporto di fatto fruisce della tutela apprestata dall’art. 2 Cost. ai diritti inviolabili dell’uomo nelle formazioni sociali, con la conseguenza che ogni intervento diretto ad ottenere una disciplina omogenea delle due situazioni rientra nella sfera di discrezionalità del legislatore.
35.6.3.4. La prima decisione in argomento (Corte Cost., sentenza n. 237 del 1986), pur risolvendo negativamente la questione, aveva peraltro ammesso che “un consolidato rapporto (come la convivenza more uxorio), ancorchè di fatto, non appare costituzionalmente irrilevante se si abbia riguardo al riconoscimento delle formazioni sociali ed alle conseguenti intrinseche manifestazioni solidaristiche (art. 2 Cost.) e ciò tanto più se vi sia presenza di prole.
Siffatti interessi sono indubbiamente meritevoli, nel tessuto delle realtà sociali odierne, di compiuta obiettiva valutazione. Tuttavia, nel caso in questione, la eventuale parificazione della convivenza e del coniugio relativamente all’imputato art. 307 c.p., comma 4, trascenderebbe i ristretti termini del caso, coinvolgendo le altre ipotesi di reato ex art. 384 c.p. e altri istituti, di ordine processuale – la ricusazione del giudice, la facoltà di astensione dal deporre, la titolarità nella richiesta di revisione delle sentenze di condanna e di connesso esercizio dei relativi diritti, ovvero nella presentazione di domanda di grazia – nonchè la disciplina della separazione dei coniugi, con conseguente necessità di apprestare un’esaustiva regolamentazione comportante scelte e soluzioni di natura discrezionale, riservate al solo legislatore, al quale peraltro si rinnova la già espressa sollecitazione a provvedere in proposito”.
35.6.3.5. L’invito autorevolmente rivolto al legislatore dal Giudice delle leggi nel 1986 è rimasto sin qui inascoltato.
35.6.3.6. Nei medesimi termini si è articolato l’iter interpretativo dell’art. 649 c.p. (che prevede casi di non punibilità, o di punibilità a querela della persona offesa, per reati contro il patrimonio commessi in danno di congiunti) nella giurisprudenza di legittimità, anche in questo caso ferma nell’escludere l’estensione dell’istituto alle unioni di fatto (così, fra le tante, Sez. 5^, sentenza n. 34339 del 26 settembre 2005, CED Cass. n. 232253).
35.6.3.7. Ed analoghi sono stati i percorsi interpretativi seguiti dalla giurisprudenza costituzionale per escludere l’illegittimità della predetta disciplina, così interpretata, per la mancata equiparazione della convivenza more uxorio al rapporto di coniugio:
“non è irragionevole od arbitrario che – particolarmente nella disciplina di cause di non punibilità, quale quella in esame, basate sul “bilanciamento” tra contrapposti interessi (quello alla repressione degli illeciti penali e quello del valore dell’unità della famiglia, che potrebbe essere pregiudicato dalla repressione) – il legislatore adotti soluzioni diversificate per la famiglia fondata sul matrimonio, contemplata nell’art. 29 Cost., e per la convivenza more uxorio: venendo in rilievo, con riferimento alla prima, a differenza che rispetto alla seconda, non soltanto esigenze di tutela delle relazioni affettive individuali, ma anche quella della protezione dell'”istituzione familiare”, basata sulla stabilità dei rapporti, di fronte alla quale soltanto si giustifica l’affievolimento della tutela del singolo componente. Nè rileva in contrario la (peraltro non totale) parificazione del convivente al coniuge riguardo alla facoltà di astensione dalla testimonianza, operata dall’art. 199 c.p.p., non potendosi far discendere dalla norma così invocata dal giudice a quo come termine di raffronto un principio di assimilazione dotato di vis espansiva fuori del caso considerato” (Corte Cost., sentenza n. 352 del 2000; nel medesimo senso, in recedenza, sentenza n. 1122 del 1988).
35.6.3.8. Anche in questo caso, peraltro, la prima decisione che si era occupata della questione (Corte Cost., sentenza n. 423 del 1988), pur concludendo per l’infondatezza della sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p., per il rilievo che “la nor punibilità dei delitti contro il patrimonio commessi in danno del coniuge non legalmente separato si fonda sulla presunzione di esistenza di una comunanza di interessi che assorbe il fatto delittuoso, sicchè la mancata estensione della suddetta esimente alla diversa fattispecie della convivenza more uxorio – fondata sull’affectio quotidiana, liberamente e in ogni istante revocabile – non sembra contrastare con gli artt. 2 e 3 Cost.“, aveva precisato che tale restrittivo principio poteva in concreto operare soltanto “se (come nel caso oggetto del giudizio a quo sussistano atti concludenti che attestano la revocazione dell’affectio e dunque il venir meno della convivenza more uxorio”.
35.6.3.9. Non è apparso ammissibile, per risolvere il problema, il ricorso alla analogia in bonam partem, come isolatamente ritenuto, in relazione all’art. 384 c.p., da Sez. 6^, sentenza n. 22398 dell’11 maggio 2004, CED Cass. n. 229676 (per la quale “anche la stabile convivenza more uxorio può dar luogo per analogia al riconoscimento della scriminante prevista dall’art. 384 c.p.”).
Invero, come chiarito da autorevole dottrina, entrambi gli istituti in esame hanno natura giuridica di cause speciali di non punibilità, e come tali presentano carattere eccezionale che preclude l’ampliamento del loro campo di applicazione per analogia, in quanto le valutazioni politico-criminali poste a fondamento di essi sono “legate alle caratteristiche specifiche della situazione presa in considerazione e perciò non estensibili ad altri casi”.
35.6.3.10. La dottrina meno recente aveva considerato la convivenza more uxorio quale legame meno produttivo di effetti giuridici, rispetto al vincolo familiare legalmente costituito, evidenziando che da un rapporto posto in essere in difetto di un vincolo giuridico non possono derivare le conseguenze che solo dal vincolo dipendano.
Dopo oltre un decennio, preso atto che, nonostante i profondi mutamenti intervenuti nel costume sociale (“anche nelle espressioni semantiche che contraddistinguono il rapporto di coppia al di fuori del matrimonio, tante che si è passati dalla c.d. convivenza more uxorio alla famiglia di fatto”), il fenomeno continuava a non essere disciplinato, altra dottrina ha osservato che “se è tramontato l’atteggiamento repressivo o dispregiativo della società nei confronti dei c.d. conviventi ed in parte superato quell’atteggiamento di irrilevanza, non sempre si fa strada la “giustiziabilità” delle specifiche situazioni meritevoli di tutela (…). Anzi la rilevanza della convivenza può così sintetizzarsi:
da un lato si tende a negare definitivamente l’equiparazione della famiglia di fatto a quella legittima, dall’altro si conferisce rilevanza alla convivenza, specie per quanto attiene agli aspetti svantaggiosi o negativi”.
35.6.3.11. Quest’ultimo acuto rilievo trovava puntuale riscontro nelle interpretazioni giurisprudenziali (come si vedrà, non sistematicamente coerenti).
La configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia (art. 572 c.p.) anche in danno del mero convivente more uxorio, e più in generale l’ampliamento della sfera della tutela penale apprestata dalla categoria dei reati contro la famiglia anche alle unioni di fatto, possono dirsi ormai pacifici in giurisprudenza da quasi cinquant’anni, a partire da Sez. 2^, sentenza n. 320 del 26 maggio 1966, CED Cass. n. 101563 (per la quale, “agli effetti dell’art. 572 c.p., deve considerarsi “famiglia” ogni consorzio di persone tra le quali, per intime relazioni e consuetudini di vita, siano sorti legami di reciproca assistenza e protezione: anche il legame di puro fatto stabilito tra un uomo ed una donna vale pertanto a costituire una famiglia in questo senso, quando risulti da una comunanza di vita e di affetti analoga a quella che si ha nel matrimonio”). Il principio è stato più volte ribadito, fino alla più recente Sez. 6^, sentenza n. 20647 del 29 gennaio 2008, CED Cass. n. 239726.
Secondo altro orientamento ugualmente pacifico, tuttavia, in tema di ammissione al patrocinio a spese dello Stato, tra i redditi degli altri familiari conviventi facenti capo all’interessato, rientrano anche quelli del convivente more uxorio, poichè il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 76, comma 2, opera un generico riferimento alle unioni familiari, quale che ne sia la natura, e quindi anche a quelle di fatto (così questa Corte unanimemente, a partire da Sez. 6^, sentenza n. 4264 dell’11 giugno 1998, CED Cass. n. 211722, e da ultimo Sez. 4^, sentenza n. 109 del 5 gennaio 2006, CEd Cass. n. 23277).
La questione della equiparabilità o meno delle unioni di fatto a quelle legittime risulta disomogeneamente risolta dalla giurisprudenza in relazioni ad ulteriori applicazioni. Le unioni di fatto sono state ritenute:
– rilevanti fini del riconoscimento della sussistenza dell’attenuante della provocazione (art. 62 c.p., n. 2), a partire da Sez. 1^, sentenza n. 1578 del 16 marzo 1972, CED Cass. n. 120476 e fino a Sez. 6^, sentenza n. 12477 del 18 ottobre 1985, CED Cass. n. 171450 (orientamento non recente, ma consolidato e successivamente non contraddetto);
– non rilevanti in relazione all’applicazione della circostanza aggravante prevista dall’art. 577 c.p., comma 2, (non consentita – stante il chiaro disposto della norma – dal divieto di analogia in malam partem) a partire da Sez. 1^, sentenza n. 6037 del 18 maggio 1988, CED Cass. n. 178415, e fino a Sez. 5^, sentenza n. 8121 del 27 febbraio 2007, CED Cass. n. 236525 (orientamento non recente, ma consolidato e successivamente non contraddetto).
35.6.3.12. In adesione agli orientamenti sin qui riepilogati (ciascuno, con riguardo all’istituto interessato, assolutamente dominante, se non pacifico), dovrebbe determinarsi, pur all’apparenza legittimamente, l’effetto paradossale che alla donna indagata/imputata di favoreggiamento per aver offerto ospitalità al convivente more uxorio/latitante, titolare di una posizione reddituale rilevante, dovrebbe, nell’ambito del medesimo procedimento, esser negata:
– sia l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato (poichè alla determinazione del reddito concorrono i redditi dei familiari conviventi, quale che sia la natura – di fatto o legittima – dell’unione familiare);
– sia l’applicabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 384 c.p. (che la norma limita ai “prossimi congiunti”, la cui nozione opera, ex art. 307 c.p., comma 4, unicamente nell’ambito della “famiglia legittima”).
Tale discrasia avrebbe astrattamente potuto determinarsi proprio nel presente procedimento, se l’imputata avesse chiesto l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato.
35.6.3.13. Prendendo atto di tali disomogenee (e, nel complesso, sistematicamente “bizzarre”, secondo la dottrina che per prima le aveva evidenziate) interpretazioni giurisprudenziali, la 4^ Sezione (sentenza n. 32190 del 21 maggio 2009, CED Cass. n. 244682) ha riconosciuto l’operatività della causa soggettiva di esclusione della punibilità prevista dall’art. 649 c.p. anche in favore del convivente more uxorio.
Nel caso di specie, era stata emessa, con riguardo ai reati di furto con strappo (art. 624 bis c.p.) e furto aggravato (art. 624 c.p. e art. 61 c.p., nn. 7 ed 11), sentenza di non doversi procedere, per essere i reati estinti per remissione di querela, sul presupposto dell’applicabilità dell’art. 649 c.p., comma 2, (punibilità a querela della persona offesa), in quanto l’imputato e la persona offesa, al momento dei fatti oggetto del processo, erano conviventi more uxorio (la convivenza era successivamente cessata).
La 4^ Sezione, nel rigettare il ricorso del Procuratore generale, ha innanzi tutto ricordato i disomogenei orientamenti giurisprudenziali di legittimità in tema di convivenza more uxorio, evidenziando che, sotto il profilo penalistico, “il concetto di “famiglia” cui fanno riferimento diverse norme incriminatrici vigenti, non è sempre ritenuto legato all’esistenza di un vincolo di coniugio o comunque di una famiglia nata da tale vincolo ma i precedenti giurisprudenziali spesso si riferiscono a qualsiasi consorzio di persone tra le quali, per strette relazioni e consuetudini di vita, siano sorti rapporti di assistenza e di solidarietà per un apprezzabile periodo di tempo”.
Inoltre, nel richiamare l’orientamento della Corte costituzionale (che, investita della questione di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p. – nella parte in cui non stabilisce la non punibilità dei fatti ivi previsti se commessi in danno del convivente more uxorio – aveva, con sentenza n. 352 del 2000 cit., dichiarato non fondata la questione), ha osservato che, in realtà, il Giudice delle leggi non aveva ritenuto irragionevole una eventuale diversa interpretazione dell’art. 649 c.p., ma anzi aveva ricordato che, proprio su sua sollecitazione (il riferimento è alla sentenza n. 6 del 1977), era stato approvato l’art. 199 c.p.p. che, nel disciplinare la facoltà di astensione dal deporre dei prossimi congiunti, ha esteso la facoltà di astenersi “a chi, pur non essendo coniuge dell’imputato, come tale conviva o abbia convissuto con esso”, sia pure limitando la facoltà ai fatti verificatisi o appresi dall’imputato durante la convivenza.
D’altro canto, plurime modifiche normative recenti:
ad esempio:
– la L. n. 66 del 1996, che, in più parti, prende in considerazione la figura del “convivente” di fatto del genitore, equiparandola a quella del coniuge: cfr. art. 609 quater c.p., comma 2, art. 609 septies c.p., comma 4, n. 2, e art. 612 sexies c.p.;
– la L. n. 269 del 1998, che ha introdotto l’art. 600 sexies c.p. (a norma del quale i fatti previsti da alcune norme preesistenti – artt. 600, 601 e 602 c.p. – o di nuova introduzione – artt. 600 bis e 600 ter c.p. – sono aggravati se commessi dal convivente del coniuge);
– la L. n. 154 del 2001, il cui art. 5 (misure contro la violenza nelle relazioni familiari) dispone analoga equiparazione, ritenendo applicabile al convivente la misura cautelare coercitiva dell’allontanamento dalla casa familiare (art. 282 bis c.p.p.), introdotto dall’art. 1 della stessa legge;
– il D.L. n. 11 del 2009, convertito nella L. n. 38 del 2009, il cui art. 7 ha introdotto l’art. 612 bis c.p. (che disciplina gli atti persecutori ed equipara, ai fini dell’esistenza di un’aggravante, la posizione del coniuge legalmente separato o divorziato a quella della “persona che sia stata legata da relazione affettiva alla persona offesa”, qualità il cui ampio ambito di applicazione appare idoneo a ricomprendere anche la convivenza more uxorio), hanno esteso la disciplina penalistica ai conviventi ed alla famiglia di fatto in genere.
Per quanto riguarda specificamente la possibilità di applicare l’art. 649 c.p. al convivente more uxorio, la 4^ Sezione ha premesso che l’equiparazione della famiglia alla famiglia di fatto per analogia (posto a fondamento della decisione impugnata) è insoddisfacente, poichè in molti casi si tratterebbe di una chiara ipotesi di analogia in malam partem non consentita: “se si ragiona in termini di analogia deve peraltro ritenersi che questa estensione per via analogica in malam partem sia già avvenuta. La già ricordata giurisprudenza di legittimità sull’applicabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia anche nel caso di convivenza more uxorio e l’affermata ricorrenza dell’aggravante del fatto di lesioni volontarie commesso in danno del coniuge lo dimostrano. E, in quest’ottica, non costituirebbe estensione analogica in malam partem ritenere che chi chiede di essere ammesso al patrocinio a spese dello Stato debba tener conto anche del reddito del convivente more uxorio malgrado la norma parli soltanto di “coniuge”?”.
Nondimeno, la Corte ha evidenziato che l’interprete deve ricondurre il sistema a coerenza onde evitare di adottare soluzioni che contrastano – prima ancora che con una visione unitaria del tema – con il senso comune, chiedendosi “perchè mai all’imputato di lesioni volontarie in danno del convivente more uxorio dovrebbe essere contestata l’aggravante di aver commesso il fatto in danno del coniuge convivente e poi, se la stessa persona commette un furto in danno del medesimo convivente, viene punita come qualunque altro autore del medesimo fatto?”.
Si tratta di contraddizioni che possono essere evitate solo accogliendo una nozione “famiglia” e di “coniugio” in linea con i mutamenti sociali che questi istituti hanno avuto negli ultimi decenni del secolo scorso: “chi mai porrebbe in dubbio che famiglia sia soltanto quella che si fonda sul matrimonio e non anche quella che si fonda su una convivenza eventualmente durata decenni, che ha spesso condotto alla procreazione di figli, caratterizzata dall’assistenza reciproca, dalla convivenza fondata su comuni ideali e stili di vita? E chi riuscirebbe a distinguere la situazione personale di uno dei protagonisti di questa vicenda umana, che spesso ha termine solo con la morte di uno dei partecipi, da quella di chi ha contratto formai mente il matrimonio?”.
Il diritto deve necessariamente tener conto dell’evoluzione della società, ed adattare le sue regole ai mutamenti della realtà sociale: “oggi famiglia e matrimonio hanno un significato diverso e più ampio rispetto a quello che veniva loro attribuito all’epoca dell’entrata in vigore del codice penale ancora vigente e la stabilità del rapporto, con il venir meno dell’indissolubilità del matrimonio, non costituisce più caratteristica assoluta e inderogabile ed anzi spesso caratterizza maggiormente unioni non fondate sul matrimonio”.
E l’interprete non può non tener conto, nell’inquadramento giuridico degli istituti preesistenti, della legislazione degli ultimi decenni, “particolarmente attenta nel prevedere un trattamento indifferenziato di situazioni che, evidentemente, reputa meritevoli di una disciplina comune”.
Per tale ragione, la conclusiva decisione del giudice di merito è stata ritenuta corretta, pur non potendone essere condiviso il percorso argomentativo (che aveva fatto erroneamente riferimento all’analogia): “se ragioni di politica criminale hanno condotto a ritenere non punibile il furto commesso in danno del coniuge convivente e punibile a querela quello commesso in danno del coniuge legalmente separato, non può negarsi che identiche ragioni giustificative fondino l’esigenza di identico trattamento per chi sia, o sia stato, legato da identico vincolo non fondato sul matrimonio, esistendo, anche in questi casi, la prevalenza dell’interesse alla riconciliazione rispetto a quello alla punizione del colpevole”.
35.6.3.14. Dopo la predetta decisione, questa Sezione (sentenza 13 ottobre 2009, CED Cass. n. 245626) ha ribadito, sulla scia della giurisprudenza costituzionale, l’orientamento in precedenza dominante, affermando che “la causa soggettiva di esclusione della punibilità prevista per il coniuge dall’art. 649 c.p. non si estende al convivente more uxorio”, invero senza dar conto del precedente contrario, e con motivazione estremamente scarna, incentrata unicamente sulle presunte difficoltà che la prova di un rapporto di fatto presenterebbe, con commistione, a parere del collegio indebita, tra profili di diritto e profili di fatto (potrebbe, infatti, riconoscersi in diritto rilevanza alla convivenza more uxorio, salvo ritenere, in fatto, in presenza di una situazione di incertezza probatoria, che non sia stata adeguatamente dimostrata la sussistenza di siffatto legame).
Ed anche in relazione alla disciplina dettata dall’art. 384 c.p., si è ribadito che non può essere applicata al convivente more uxorio, resosi responsabile di favoreggiamento personale nei confronti dell’altro convivente, la causa di non punibilità operante per il coniuge, ai sensi del combinato disposto dell’art. 384 c.p., comma 1, e art. 307 c.p., comma 4, i quali non includono nella nozione di prossimi congiunti il convivente more uxorio (Sez. 5^, sentenza n. 41139 del 22 ottobre 2010, CED Cass. n. 248903).
Inoltre, la giurisprudenza costituzionale (Corte cost., sentenza n. 140 del 2009), con riferimento all’istituto di cui all’art. 384 c.p., comma 1, ha ribadito che la convivenza more uxorio è diversa dal vincolo coniugale (poichè nella Costituzione il secondo è oggetto della specifica previsione di cui all’art. 29 Cost., mentre la prima ha rilevanza nell’ambito della protezione dei diritti inviolabili dell’uomo ex art. 2 Cost.) e tale diversità giustifica che la legge possa riservare ai due istituti trattamenti giuridici non omogenei:
“se è vero che, in relazione ad ipotesi particolari, si possono riscontrare tra i due istituti caratteristiche tanto comuni da rendere necessaria un’identità di disciplina, che la Corte può garantire con il controllo di ragionevolezza, nella specie, l’estensione di cause di non punibilità comporta un giudizio di ponderazione a soluzione aperta tra ragioni diverse e confliggenti che appartiene primariamente al legislatore. Si tratterebbe, insomma, di mettere a confronto l’esigenza della repressione di delitti contro l’amministrazione della giustizia, da un lato, e la tutela di beni afferenti la vita familiare, dall’altro, ma non è detto che i beni di quest’ultima natura debbano avere necessariamente lo stesso peso, a seconda che si tratti della famiglia di fatto o della famiglia legittima, per la quale sola esiste un’esigenza di tutela non solo delle relazioni affettive, ma anche dell’istituzione familiare come tale, di cui elemento essenziale e caratterizzante è la stabilità.
Ciò legittima nel settore dell’ordinamento penale soluzioni legislative differenziate”. E si è, infine, ancora una volta ritenuto che una dichiarazione di incostituzionalità che assumesse la pretesa identità della posizione spirituale del coniuge e del convivente, “oltre a rappresentare la premessa di quella totale equiparazione che non corrisponde alla visione fatta propria dalla Costituzione, determinerebbe ricadute normative consequenziali di portata generale che trascendono l’ambito del giudizio incidentale di legittimità costituzionale”.
35.6.3.15. Tanto premesso, il collegio, nel richiamare il monito rivolto al Legislatore da Corte Cost. n. 237 del 1986, e preso altresì atto della “mutevole” rilevanza penale della famiglia di fatto emergente dalle applicazioni giurisprudenziali in precedenza passate in rassegna, condivide e ribadisce quanto affermato dalla 4^ Sezione in riferimento alla necessità di ricondurre il sistema a coerenza, onde evitare di adottare soluzioni che contrastano – prima ancora che con una visione unitaria del tema – con il senso comune.
Come osservato dalla 4^ Sezione, le evidenziate contraddizioni possono essere evitate solo accogliendo una nozione di “famiglia” e di “coniugio” in linea con i mutamenti sociali che questi istituti hanno avuto negli ultimi decenni del secolo scorso, tenendo conto dell’evoluzione della società, ed adattando l’interpretazione di ciascuna regula juris ai mutamenti della realtà sociale, perchè incontestabilmente “oggi famiglia e matrimonio hanno un significato diverso e più ampio rispetto a quello che veniva loro attribuito all’epoca dell’entrata in vigore del codice penale ancora vigente e la stabilità del rapporto, con il venir meno dell’indissolubilità del matrimonio, non costituisce più caratteristica assoluta e inderogabile ed anzi spesso caratterizza maggiormente unioni non fondate sul matrimonio”.
35.6.3.16. In virtù di tali considerazioni, non può più ritenersi attuale l’opinione di quanti ritengono che la “totale equiparazione” tra la famiglia pieno iure e quella di fatto “non corrisponda alla visione fatta propria dalla Costituzione”.
35.6.3.17. Per altro verso, osserva, inoltre, il collegio che, a norma dell’art. 8 della Convenzione EDU, “ogni persona ha diritto al rispetto della sua vita privata e familiare, del suo domicilio e della sua corrispondenza”.
In proposito, la giurisprudenza della Corte EDU accoglie una nozione sostanziale, onnicomprensiva di “famiglia”, senz’altro ricomprendente anche i rapporti di fatto, privi di formalizzazione legale, ai quali si ritiene che l’art. 8 cit. assicuri incondizionata tutela: in tal senso, va ricordata la sentenza 13 giugno 1979, Marckx contro Belgio, per la quale l’art. 8 “presuppone l’esistenza di una famiglia, e tutela sia la famiglia naturale che la famiglia legittima”, poichè la nozione di famiglia accolta dalla citata disposizione “non si basa necessariamente sul vincolo del matrimonio, ma anche su ulteriori legami di fatto particolarmente stretti e fondati su una stabile convivenza”. Il principio è stato più recentemente ribadito dalla sentenza 13 dicembre 2007, Emonet ed altri contro Svizzera, per la quale “La nozione di famiglia accolta dall’art. 8 CEDU) non si basa necessariamente sul vincolo del matrimonio, ma anche su ulteriori legami di fatto particolarmente stretti e fondati su una stabile convivenza. La durata della convivenza e l’eventuale nascita di figli sono elementi ulteriormente valutabili”.
35.6.3.18. Alle norme della Convenzione EDU è, ormai, pacificamente riconosciuto il rango di “fonti interposte”, destinate ad integrare il parametro indicato dall’art. 117 Cost., il cui comma 1 impone al Legislatore di conformare il prodotto normativo agli obblighi internazionali, fra i quali vanno annoverati anche quelli derivanti dalla richiamata Convenzione; tuttavia, proprio perchè si tratta di norme che integrano i parametro costituzionale, ma rimangono pur sempre a livello sub-costituzionale, è necessario che esse stesse siano conformi a Costituzione, non sottraendosi, dunque, al relativo sindacato da parte del Giudice delle leggi.
Ed è noto che “le norme della Convenzione EDU vivono nell’interpretazione che delle stesse viene data dalla Corte europea;
la verifica di compatibilità costituzionale deve riguardare la norma come prodotto dell’interpretazione, non la disposizione in sè e per sè considerata. Si deve pertanto escludere che le pronunce della Corte di Strasburgo siano incondizionatamente vincolanti ai fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali. Tale controllo deve sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dagli obblighi internazionali (imposto dall’art. 117 Cost., comma 1) e la tutela degli interessi costituzionalmente protetti contenuta in altri articoli della Costituzione” (Corte Cost., sent. 1.348 del 2007).
La Corte costituzionale può, a sua volta, interpretare la Convenzione, purchè nel rispetto sostanziale della giurisprudenza europea formatasi al riguardo, ma “con un margine di apprezzamento e di adeguamento che le consenta di tener conto delle peculiarità dell’ordinamento giuridico in cui la norma convenzionale è destinata a inserirsi” (sentenze n. 311 del 2009 e n. 236 del 2011).
L’art. 46, p. 1, della Convenzione EDU impegna, inoltre, gli Stati contraenti “a conformarsi alle sentenze definitive della Corte europea dei diritti dell’uomo sulle controversie di cui sono parti”;
soggiungendo, nel p. 2, che “la sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei ministri che ne controlla l’esecuzione”. In proposito, tuttavia, questa Corte (Sez. un., ord. n. 34472 del 2012, CED Cass. n. 252933) ha chiarito che “le decisioni della Corte EDU che evidenzino una situazione di oggettivo contrasto – non correlata in via esclusiva al caso esaminato – della normativa interna sostanziale con la Convenzione EDU, assumono rilevanza anche nei processi diversi da quello nell’ambito del quale è intervenuta la pronunzia della predetta Corte internazionale”.
Si è, infine, precisato che “in presenza di un apparente contrasto fra disposizioni legislative interne ed una disposizione della CEDU, anche quale interpretata dalla Corte di Strasburgo, può porsi un dubbio di costituzionalità, ai sensi del primo comma dell’art. 117 Cost., solo se non si possa anzitutto risolvere il problema in via interpretativa”, giacchè soltanto “ove l’adeguamento interpretativo, che appaia necessitato, risulti impossibile o l’eventuale diritto vivente che si formi in materia faccia sorgere dubbi sulla sua legittimità costituzionale, questa Corte potrà essere chiamata ad affrontare il problema della asserita incostituzionalità della disposizione di legge” (Corte Cost., sentenza n. 239 del 2009).
35.6.3.19. Nel caso in esame, il contrasto tra la rilevanza, agli effetti penali, della famiglia di fatto nell’ordinamento interno e l’art. 8 Conv. EDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo (senz’altro nel segno di una tutela maggiore rispetto al livello garantito dalla Costituzione italiana) appare di solare evidenza; e, d’altro canto, con specifico riguardo agli istituti di cui agli artt. 384 e 649 c.p., non può omettersi di considerare che le fonti internazionali aventi efficacia penale in bonam partem sono immediatamente cogenti per l’interprete, a meno che non si pongano in contrasto con i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale, e non ne è questo il caso.
Nondimeno, ritiene il collegio che l’evidenziato contrasto possa essere senz’altro risolto in via interpretativa, poichè il necessario adeguamento interpretativo della normativa interna a quella sovranazionale (nel senso della completa equiparazione in bonam partem, ad ogni effetto penale, della famiglia pieno iure a quella di fatto) non risulta contrario ai principi costituzionali fondamentali interni, e, d’altro canto, proprio il contrasto insorto nell’ambito della giurisprudenza di legittimità sul tema, impedisce di ravvisare l’esistenza di un diritto vivente assolutamente ostativo.
35.6.3.20. In considerazione di quanto sin qui osservato (p.p. 35.5.3.15 s. e 35.5.3.17 ss.), va affermato il seguente principio di diritto:
“La causa di non punibilità prevista dall’art. 384 c.p., comma 1, in favore del coniuge opera anche in favore del convivente more uxorio”.
35.6.3.21. In applicazione del principio appena affermato, e tenuto conto di quanto emergente ex actis (cfr. p. 35.5.3.1.), l’imputata R.A. va dichiarata non punibile in ordine al reato di cui al capo A6), in applicazione della causa di non punibilità di cui all’art. 384 c.p., comma 1.
La sentenza impugnata va, conseguentemente, annullata in parte qua, senza rinvio; va, inoltre, eliminata la relativa pena inflitta in continuazione di mesi due di reclusione ed Euro cento di multa, e la pena finale va complessivamente rideterminata in anni sei e mesi quattro di reclusione ed Euro millecinquecento di multa.
Restano assorbite da questa statuizione le ulteriori doglianze difensive oggetto del terzo motivo.