In questa interessante sentenza della Quinta Sezione Penale si ripercorrono le ipotesi di falsità in cui può incorrere l’esercente la professione sanitaria in ambito pubblico o privato.
Vengono descritti gli effetti e la portata certificativa della cd ricetta rossa del SSN emessa dal medico pubblico o dal medico convenzionato e la ricetta bianca emessa dagli stessi quando operino come liberi professionisti puri o intra moenia.
In effetti la vicenda trattata dalla Corte è ben poco commendevole trattandosi di un medico che aveva rilasciato due ricette bianche “di favore” ad un farmacista che aveva venduto dei farmaci anabolizzanti probabilmente ad un culturista, mentre si era cercato di sostenere da parte del medico che le ricette erano per il padre operato di prostata.
Una vicenda squallida dal punto di vista etico e professionale ma che mi dà un po’ da pensare quando la Cassazione come avviene ormai abbastanza spesso integra il precetto penale ovvero stabilisce norma processuali (nel caso degli avvocati) facendo ricorso ampio ai codici deontologici professionali.
In questo caso la norma sicuramente applicabile era l’art. 481 del codice penale come riconosciuto dalla Suprema Corte (il giudice di primo grado doveva avere preso un forte abbaglio) tuttavia da quanto si comprende dalla lettura della motivazione, nella ricetta bianca non era indicato il nome del paziente (come di solito avviene per quanto di mia esperienza personale) e nemmeno la patologia, di talché per fondare la ipotesi di falso ideologico si ricorre all’art. 22 del codice di deontologia medica che impone la visita del paziente, salvo il ricorrere di ben determinate condizioni.
Il ricorso anche in questo caso come avviene di solito è stato dichiarato inammissibile anche al fine non esplicitato di non dichiarare la intervenuta prescrizione del reato (almeno per il primo dei due fatti) anche considerata la sospensione della prescrizione covid per 63 giorni.
Filippo Poggi