Maternità surrogata e rifiuto alla trascrizione in Francia

Il no alla trascrizione di un atto di nascita ottenuto all’estero – a seguito del ricorso alla maternità surrogata – nei registri dello stato civile di uno Stato non è contrario alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

E’ la Corte di Strasburgo a stabilirlo con la decisione C. e E. contro Francia (ricorsi n. 1462/18 e 17348/18) del 12 dicembre 2019, con la quale i giudici internazionali hanno dichiarato irricevibile i due ricorsi, uno di una coppia di cittadini francesi che aveva fatto ricorso alla maternità surrogata negli Stati Uniti e l’altro di una coppia che aveva seguito lo stesso iter in Ghana. I coniugi avevano chiesto la trascrizione, in Francia, dell’atto di nascita che li indicava come genitori, ma le istanze erano state respinte. Di qui il ricorso alla Corte di Strasburgo. Al centro dell’azione, la violazione dell’articolo 8, che assicura il diritto al rispetto della vita privata e familiare e dell’articolo 14, che vieta ogni forma di discriminazione. La Corte europea non ha accolto le tesi dei ricorrenti richiamando il parere reso dalla Grande Camera, in base al Protocollo n. 16, il 10 aprile 2019. In quel caso la Corte ha precisato che gli Stati devono prevedere il riconoscimento di un legame genitore/figlio con la madre non biologica, indicata nel certificato di nascita acquisito all’estero, ma sono liberi nella scelta delle modalità potendo, ad esempio, utilizzare l’adozione che permette di garantire l’attuazione effettiva del principio dell’interesse superiore del minore, a patto che avvenga in tempi rapidi. 

Una soluzione che non ci convince perché di fatto finisce per escludere il riconoscimento dei figli nati attraverso il ricorso alla maternità surrogata, suggerendo una scappatoia – come quella dell’adozione – che potrebbe non corrispondere né agli interessi del minore e neppure a quelli della coppia che abbia fatto ricorso alla maternità surrogata.

Malgrado l’avverso avviso della Corte EDU, c’è un’evidente violazione dell’art. 8 della Convenzione che finisce per adottare una soluzione “pilatesca” in considerazione probabilmente di elementi estranei, spesso di sapore religioso, che contrasta con il principio di non discriminazione.

In effetti, anche in Italia di dibatte ancora sull’argomento per cui l’avviso espresso della Corte finirà per influire anche sulle decisioni che riguardano casi analoghi, sui quali la Magistratura non si è ancora espressa.

Fonte: www. marinacastellaneta.it

Nota a cura  Avv. E. Oropallo

“Schedare” gli allievi in base alle loro convinzioni per l’esonero dall’ora di religione viola la Cedu

È quanto deciso dalla CEDU nel caso Papageorgiou ed altri c. Grecia.

Il caso.

I ricorrenti sono genitori ed allieve di istituti siti in piccole isole. Con la riforma, poi annullata per incostituzionalità dal Consiglio di Stato, si prevedeva un’apertura all’insegnamento anche dei valori di altri credi diversi da quello ortodosso a causa dell’incremento dei flussi migratori.

I ricorrenti hanno contestato le decisioni ministeriali circa la riforma anche «sulla base del fatto che non si prevedeva un corso di educazione religiosa obiettiva, critica e pluralista”.

In breve, contestavano non l’obbligatorietà del corso, ma la procedura dell’esonero che li obbligava a rivelare le loro convinzioni religiose, esponendoli a rischi di ghettizzazione.

I genitori sono i primi responsabili dell’educazione del figlio. L’art. 2, protocollo 1, – scrive la Corte – nel riconoscere il diritto all’istruzione, attribuisce un ruolo di primaria importanza ai genitori.

Lo Stato è perciò limitato nel suo margine discrezionale in materia: non può imporre indottrinamenti, ma rispettare le convinzioni degli allievi e dei genitori che possono anche essere liberi di non professare alcun credo.

Lo Stato ha perciò il dovere di garantire il rispetto dei diritti e delle libertà previste dalla Cedu e la funzione del legislatore non deve andare oltre questo controllo parlamentare e giudiziario, dovendo sempre equamente bilanciare interessi pubblici e privati.

Lo Stato, nel rispetto del pluralismo su cui si fonda la democrazia, non dovrebbe mai porre una persona in conflitto tra le proprie convinzioni religiose e filosofiche (e quelle della sua famiglia) e l’insegnamento della religione, prevedendo perciò l’esonero dalla stessa. Nella fattispecie, però, per ottenerlo, i genitori dovevano rilasciare una solenne dichiarazione, controfirmata dal docente di religione, in cui dichiaravano che i figli non erano cristiani ortodossi e come tali erano schedati nei registri scolastici.

La CEDU rileva come ciò possa avere effetti dissuasivi dal richiedere l’esonero anche per non rilevare le proprie convinzioni religiose e comportare un ulteriore rischio di essere emarginati, soprattutto se residenti in comunità piccole e religiosamente compatte.

Novembre 2019

Fonte: Diritto e Giustizia

www.dirittoegiustizia.it

(Avv. E. Oropallo)

Il rifiuto della Spagna di considerare la pena già inflitta in Francia è compatibile con la Convenzione EDU

Nessuna violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nei casi di condanna in uno Stato pronunciata senza tenere conto della pena inflitta in un altro Stato. Lo ha chiarito la Corte europea dei diritti dell’uomo con la decisione Aguirre Lete contro Spagna (ricorso n. 29068/17) depositata il 9 luglio e resa pubblica il 29 agosto, con la quale è stato dichiarato inammissibile il ricorso presentato da 5 cittadini spagnoli condannati a 30 anni in Spagna e, per fatti commessi in precedenza, legati al terrorismo, a una pena detentiva anche in Francia (AGUIRRE LETE ET AUTRES c. ESPAGNE).

Secondo i ricorrenti, le autorità spagnole avrebbero dovuto considerare la condanna inflitta in Francia per crimini legati all’attività terroristica ETA in quanto collegati ai fatti oggetto di condanna in Spagna.

Le autorità spagnole avevano escluso questa possibilità e, quindi, i condannati si sono rivolti alla Corte europea ritenendo violato l’articolo 7 della Convenzione che riconosce il principio dell’irretroattività della legge penale più sfavorevole e il principio nulla poena sine lege.

Strasburgo, prima di tutto, è partita dalla constatazione che le decisioni rese in Spagna non hanno portato portato a un allungamento della durata della pena che è rimasta a 30 anni e non vi è stato un cumulo delle pene, non previsto dalla legislazione spagnola che non stabiliva una modifica della durata della detenzione per una condanna scontata in altro Paese, per cui la Corte europea ha dichiarato i ricorsi irricevibili.

Novembre 2019

Fonte: www.marinacastellaneta.it

(Avv. E. Oropallo)

CEDU: Guida sull’articolo 1 della Convenzione e sulla nozione di giurisdizione

Recentemente, allo scopo di favorire una corretta interpretazione della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo e individuare l’ambito applicativo della stessa, la Cancelleria della Corte ha adottato una una guida per chiarire la nozione di giurisdizione, di responsabilità e di obbligo del rispetto dei diritti umani.

La guida è basata sulla giurisprudenza della Corte relativa all’art. 1, la quale indica i principi chiave in materia. Le sentenze e i provvedimenti resi dalla Corte servono a chiarire, salvaguardare e sviluppare le norme della Convenzione, contribuendo al rispetto da parte degli Stati degli obblighi che essi hanno assunto in qualità di parti contraenti.

Si legge ancora nella nota allegata alla guida che il sistema adottato dalla Convenzione ha per finalità di chiarire, nell’interesse generale, i problemi che si pongono in materia di ordine pubblico, riaffermando il ruolo della Convenzione in quanto “strumento costituzionale dell’ordine pubblico europeo” nel settore dei diritti dell’uomo.

Di fatto la guida è uno strumento utilissimo per conoscere quale sia e difendere il lavoro degli operatori del diritto, ed in particolare il lavoro dell’avvocato onde evitare un rigetto del ricorso per inammissibilità.

La guida riporta alla fine un elenco delle sentenze più interessanti e più recenti emesse dalla Corte.

La guida (inglese e/o francese) è scaricabile dal sito della Cedu.

https://echr.coe.int/

Ottobre 2019

Avv. E. Oropallo

 

Sono da equipararsi l’apolide “di fatto” a quello “di diritto”

Nel 2016 veniva emesso nei confronti di un soggetto, già cittadino jugoslavo, decreto prefettizio di espulsione in virtù della mancata regolarizzazione della presenza dello stesso sul territorio nazionale. In particolare, in detto decreto si giustificava l’ordine di espulsione evidenziando l’insussistenza delle condizioni per il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari o ad altro titolo, nonché la ricorrenza dei presupposti per considerare l’uomo come persona a rischio di fuga. L’interessato, ovviamente, proponeva opposizione affermando di essere entrato in Italia nel 1986, quando era ancora cittadino jugoslavo, e di non essere mai ritornato nel corso di questo periodo né in Jugoslavia né in Bosnia, suo luogo di nascita. In questo modo, egli assumeva di aver acquisito i presupposti per la dichiarazione di apolidia tanto che -a riprova della genuinità delle sue argomentazioni- tale situazione aveva impedito l’esecuzione di tre precedenti decreti di espulsione, l’ultimo dei quali era stato oggetto di opposizione che era

stata accolta dal giudice di pace competente il quale aveva riconosciuto la sua inespellibilità.

Ma l’ufficio del Giudice di Pace interessato dell’impugnazione del 2016 respingeva le difese dell’uomo rilevando che l’opponente, pur essendo in possesso dei requisiti per la dichiarazione di apolidia, non aveva mai fatto richiesta in tal senso nonostante il proprio ingresso in Italia risalisse al 1986. Non rimaneva, pertanto, che il ricorso in Cassazione il quale, puntualmente, veniva depositato dall’interessato al fine di ottenere giustizia.

Il concetto di apolidia. Gli Ermellini, innanzitutto, ricordano come per le Sezioni Unite della Suprema Corte, sin dal 2008, la nozione di apolide è quella di colui che si trovi in un Paese di cui non è cittadino, provenendo da un altro paese del quale ha perso formalmente e sostanzialmente la cittadinanza. Pertanto, ricordano gli Ermellini, ogni individuo che soddisfa questi requisiti, è da considerarsi apolide come nel caso di specie. Ma la Suprema Corte va oltre rammentando come, a tal fine, il riconoscimento giudiziale dello status di apolide abbia natura dichiarativa e non costitutiva: in questa prospettiva, dunque, anche quando lo status di apolide non sia stato ancora oggetto di accertamento giudiziale ma i suoi presupposti sono inequivocabilmente emersi dalle verifiche amministrative e/o documentali svolte dalle autorità competenti, non può non riconoscersi rilievo alla condizione di un soggetto «che si trova in un Paese di cui non è cittadino proveniente da altro Paese del quale ha perso la cittadinanza». Peraltro, nel caso in esame, è emerso dagli accertamenti svolti alle autorità pubbliche competenti, sia nello Stato italiano che nello Stato di origine, una condizione di ‘apolidia di fatto’, rilevata ed accertata incidentalmente anche dal giudice di pace competente in un provvedimento precedente che, pertanto, non può rimanere privo di effetti giuridici.

A questo punto, la Suprema Corte verifica la percorribilità nei suoi confronti di un provvedimento di espulsione ex art. 13 e ss. del d.lgs. n. 286/1998. A tal proposito, gli Ermellini ricordano che l’art. 31 della Convenzione di New York del 1954 prevede un generale divieto di espulsione dell’apolide, facendo salva l’ipotesi in cui la decisione sia giustificata da motivi di sicurezza e di ordine pubblico.                   Si tratta -precisa la Suprema Corte- di una disposizione che rivela una precisa intenzione degli Stati contraenti di limitare il potere loro riservato dal diritto internazionale di espellere in qualsiasi momento, sulla base della normativa interna, uno straniero precedentemente ammesso sul territorio nazionale.

La norma di garanzia sancita dall’art. 31 della Convenzione deve applicarsi in via analogica anche a coloro i quali si trovano in una condizione di “apolidia di fatto”.

In entrambi i casi deve operare la medesima ratio che sottostà al riconoscimento dello status di apolide nel diritto internazionale, così come recepito dal legislatore italiano.
Tale equiparazione della condizione di diritto a quella di fatto, ai fini della limitazione del potere di espulsione dell’apolide, trova un solido fondamento nel rilievo costituzionale attribuito alla tutela universalistica della persona umana. Inoltre, la Suprema Corte rileva che nel caso in esame entrambi i provvedimenti espulsivi non sono stati ammessi sulla base del riscontro, da parte dell’autorità prefettizia, della pericolosità sociale dell’uomo ma sul presupposto della irregolarità della sua presenza e della permanenza nel territorio nazionale. Per tutti questi motivi, la Cassazione, accogliendo la richiesta del Procuratore Generale, afferma il seguente principio di diritto, secondo cui l’art. 31 della Convenzione di New York, che prevede la non espellibilità di un apolide se non nei casi di documentata sussistenza dei motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico, si estende in via analogica anche alle situazioni di apolidia di fatto.

Una sentenza garantista della Suprema Corte che ancora una volta serve a fermare i tentativi dell’autorità amministrativa di forzare la norma di diritto. Una sentenza che è un segnale che non si possono stracciare i trattati internazionali che prevedono un preciso diritto al soggetto apolide di restare nel territorio in cui egli svolge la sua attività, ha una vita familiare, integrato nel tessuto sociale del paese di accoglienza.

Fonte: D&G

Giugno 2019

Nota a cura

(avv. E. Oropallo)

 

Minori stranieri: no all’automatico divieto di ingresso del genitore condannato

La pronuncia di condanna inflitta al familiare di un minore straniero presente sul territorio italiano non può bloccare in modo automatico l’ingresso e il soggiorno dello straniero. 

E’ quanto ha stabilito la Corte di Cassazione, sezioni unite civili, con la sentenza n. 15750 del 12 giugno 2019. La vicenda aveva preso il via dal ricorso di due coniugi di nazionalità albanese che avevano chiesto di essere autorizzati a rimanere in Italia per occuparsi dei figli minori. Il Tribunale per i minorenni dell’Abruzzo aveva respinto il ricorso, così come la Corte di appello di L’Aquila. Per la Cassazione, l’articolo 31, comma 3 del testo unico sull’immigrazione (Dlgs n. 286/98) è una norma di chiusura del sistema di tutela dei minori stranieri, che deroga alla disciplina sull’ingresso e sul soggiorno dello straniero.

La norma – osserva la Cassazione – è una misura incisiva a tutela e a protezione del diritto fondamentale del minore a vivere con i genitori e permette l’attuazione effettiva della Convenzione Onu sui diritti del fanciullo che impone alle  autorità  nazionali  di  considerare  detto  interesse  in ogni decisione sul minore e di vigilare affinché il minore non sia separato dai suoi genitori.

Così, la Cassazione ha affermato il principio di diritto che vieta l’automaticità del diniego all’ingresso o alla permanenza in Italia del familiare di un minore straniero che si trova sul territorio italiano, permettendo, però una valutazione della condanna se costituisce una minaccia concreta e attuale per l’ordine pubblico e la sicurezza nazionale, escludendo la quale, non può che ritenersi prevalente il diritto del minore rispetto alla norma generale.

Fonte: www.marinacastellaneta.it

Giugno 2019

Nota a cura avv. E. Oropallo

Terrorismo internazionale: la Cassazione si pronuncia sul reato di arruolamento

L’arruolamento in un’organizzazione terroristica internazionale si realizza anche senza la prova dell’esistenza di un “serio accordo” tra l’arruolato e il gruppo arruolante perché ciò che conta, per configurare il reato previsto dall’articolo 270-quarter del codice penale, è che vi sia una disponibilità concreta del terrorista a “compiere atti eversivi, anche a progettazione individuale”, pur in mancanza di una prova del patto. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, seconda sezione penale, con la sentenza n. 23168/19 depositata il 27 maggio.

Per la Suprema Corte, è necessario dare attuazione nell’ordinamento italiano alla risoluzione n. 2178 del 2014 che obbliga “a reprimere una serie di condotte volte ad agevolare, attraverso un coinvolgimento diretto, il compimento di atti terroristici, anche in territorio estero ….”   

Tra i comportamenti puniti il reclutamento di soggetti destinati a trasferirsi in altri Paesi per commettere atti di terrorismo. L’ordinamento italiano ha due fattispecie di reato: una, prevista nell’articolo 270-bis, in cui si punisce colui che ha un preciso ruolo nell’organigramma dell’associazione e l’altra, nell’articolo 270-quarter,in cui vi è l’adesione al programma con svolgimento di attività terroristica, anche a progettazione individuale. Così, non è necessario, in quest’ultima ipotesi, un serio accordo. 

Nel caso in esame, il ricorrente aveva seguito un percorso di progressiva radicalizzazione ideologica, si era messo a disposizione dell’organizzazione compiendo un viaggio in Siria e aveva materiale telematico riconducibile alla propaganda jihadista. Con un’evidente prova del suo arruolamento che ha condotto alla conferma della condanna.

Giugno 2019

Fonte: www.marinacastellaneta.it

Nota a cura

Avv. E. Oropallo

Per l’Avvocato Generale occorrono regole più restrittive per l’acquisizione e la detenzione di armi da fuoco

Lo afferma l’Avvocato Generale presso la Corte di Giustizia dell’UE nelle conclusioni relative alla causa C-482/18 dell’11 aprile 2019 (ECLI:EU:C:2019:321).

Le conclusioni dell’Avvocato Generale riguardano il ricorso promosso dalla Repubblica Ceca con cui è stato chiesto l’annullamento della direttiva UE 2017/853 del 17 maggio 2017 di modifica alla direttiva 91/477 relativa al controllo dell’acquisizione e della detenzione di armi. Dopo i tragici eventi terroristici di Parigi e Copenaghen, è sorta l’esigenza di modificare tale disciplina in modo da implementare la tracciabilità di tutte le armi da fuoco.

La direttiva 2017/853: sistema di monitoraggio sull’adeguata sorveglianza delle armi. L’art. 5 della direttiva 2017/853 obbliga gli Stati membri a realizzare un sistema di monitoraggio funzionale a garantire il rispetto delle condizioni di autorizzazione stabilite dal diritto nazionale per tutta la durata dell’autorizzazione nonché la valutazione delle informazioni mediche e psicologiche pertinenti, prevedendo, inoltre, norme in materia di adeguata sorveglianza delle armi da fuoco e delle munizioni e norme in materia di custodia in sicurezza. 

L’Avvocato Generale, sostiene che la direttiva 2017/853 realizza un equo contemperamento tra il principio di libera circolazione delle merci e la giusta tutela della sicurezza pubblica là dove non sequestra tutte le armi da fuoco civili legalmente detenute, limitandosi ad aumentare i controlli su di esse.

Peraltro, sottolinea l’Avvocato Generale, nel diritto comunitario non esiste un diritto fondamentale a possedere armi da fuoco, né tale diritto fa parte delle «tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri». Di conseguenza, l’applicazione della direttiva di modifica nella parte in cui prevede che, in presenza di determinate circostanze, sia possibile confiscare alcune armi da fuoco detenute da individui non si pone in contrasto con il diritto di proprietà atteso che quest’ultimo diritto può essere limitato nell’interesse pubblico e alle condizioni previste dalla legge.

 

 

 

 Il divieto per l’uso civile delle armi semiautomatiche. 

La direttiva, inoltre, vieta l’uso di armi semiautomatiche per uso civile in quanto alcune di tali armi possono essere facilmente convertite in armi da fuoco automatiche, creando così una minaccia per la sicurezza e comunque, anche senza tale conversione, potrebbero essere molto pericolose data la loro capacità relativa al numero di colpi elevata.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it

Giugno 2019

(Avv. E. Oropallo)

La CEDU deposita il primo parere in attuazione del Protocollo n. 16

La madre non biologica che ha fatto ricorso alla maternità surrogata all’estero ha diritto a riconoscere il figlio se ha ottenuto un certificato legale che la indica come madre nel Paese in cui la gestazione “in affitto” ha avuto luogo. Questo perché l’interesse superiore del minore e il suo diritto ad avere entrambi i genitori prevalgono sui divieti nazionali che proibiscono sul territorio dello Stato la maternità surrogata. E’ la Corte Europea dei diritti dell’uomo a stabilirlo nel parere reso dalla Grande Camera.               Si tratta del primo provvedimento adottato in base al Protocollo n. 16 in vigore dal 1° agosto 2018 per 10 Stati membri (l’Italia manca ancora all’appello), che permette alle più alte giurisdizioni nazionali di rivolgersi alla Grande Camera della Corte Europea per un parere su questioni di principio relative all’interpretazione o all’applicazione della Convenzione e dei suoi protocolli. Un meccanismo che si avvicina, pur con alcune differenze, al sistema di rinvio pregiudiziale previsto nel Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, anche se il parere fornito dalla Grande Camera non è vincolante a differenza della sentenza della Corte UE. A chiedere l’intervento di Strasburgo è stata la Corte di Cassazione francese, nella sua composizione plenaria   (Arrêt n° 638 du 5 octobre 2018).

Per la Grande Camera, gli Stati sono tenuti a garantire il riconoscimento legale del rapporto tra madre legale e figlio nato da maternità surrogata all’estero nei casi in cui questo legame sia stato riconosciuto nel Paese di gestazione. Il no assoluto al riconoscimento è così incompatibile con l’interesse superiore del minore per accertare il quale è necessario procedere a una valutazione sul diritto a crescere in un ambiente stabile, ad ottenere l’individuazione dei soggetti responsabili della crescita, nonché le esigenze del minore. Detto questo, però, la Corte osserva che gli Stati possono prevedere altri meccanismi come il ricorso all’adozione a patto che, in conformità con il principio dell’interesse superiore del minore, l’adozione avvenga rapidamente. Così scrive la prof. Castellaneta nel suo blog: www.marinacastellaneta.it.

L’Italia, ricorda la giurista, non ha sottoscritto ancora il protocollo n. 16 in vigore dal 1° Agosto 2018, per cui il giudice italiano potrebbe anche essere di diverso avviso e rigettare la richiesta di trascrizione nei registri di stato civile.

Anche se la stessa Corte ha ricordato che, in alternativa, lo Stato membro può anche prevedere il sistema dell’adozione del minore a patto che essa avvenga in tempi rapidi.

Fonte: www.marinacastellaneta.it

Giugno 2019

Nota a cura avv. E. Oropallo

 

La Cassazione sulla nozione di minore straniero non accompagnato

Con ordinanza n. 9199/19, depositata il 3 aprile dalla sesta sezione civile, la Suprema Corte, nello stabilire la competenza del Tribunale per i Minorenni, ha  colto l’occasione per precisare i requisiti necessari per la qualifica di “minore straniero non accompagnato”.

La Corte ritiene che, per applicare gli strumenti di tutela previsti dall’ordinamento italiano e per la presentazione della domanda di protezione internazionale, il minore debba essere privo di assistenza e di rappresentanza legale sul territorio nazionale.

A sollevare il conflitto di competenza è stato il Tribunale di Torino chiamato ad occuparsi dell’istanza di un cittadino albanese che chiedeva la tutela del fratello minorenne il quale si era allontanato dal proprio paese di origine, con il consenso dei genitori, per andare a vivere con il fratello in Italia. Il Giudice Tutelare del Tribunale di Novara aveva trasmesso gli atti al Tribunale per i Minorenni di Torino per il quale, la qualificazione come minore straniero non accompagnato, in questa vicenda, non era stata corretta perché, ad avviso del Tribunale, il minore non era privo di assistenza e, così, ha sollevato il regolamento di competenza. La Cassazione ha chiarito che, in base all’articolo 2 della legge n. 47/2017 il minore straniero non accompagnato deve ritenersi privo di assistenza e di rappresentanza da parte dei genitori e di altri adulti legalmente responsabili in base alle leggi dell’ordinamento italiano. 

Di conseguenza, considerando che la rappresentanza legale è quella prevista secondo l’ordinamento italiano ed è attribuita ai soli genitori che non possono delegarla “in forma privatistica ad altri soggetti”, non è possibile negare la qualifica di minore straniero non accompagnato a colui che è assistito da un fratello con dimora in Italia. Pertanto, la Cassazione conferma la competenza del Tribunale per i Minorenni.

Giugno 2019

Fonte: www.marinacestellaneta.it

Nota a cura

Avv. E. Oropallo

Il Comitato ONU sui diritti del fanciullo, richiama l’Italia sulla situazione dei minori migranti

Il Comitato che si occupa di monitorare l’applicazione della Convenzione di New York, ratificata dall’Italia con legge 27 maggio 1991 n. 176 critica, in primo piano, le misure adottate dall’Italia in materia di immigrazione che portano a un arretramento della tutela dei minori stranieri accompagnati e non. In particolare, il Comitato ha chiesto a Roma di intervenire per far sì che la legge n. 132/2018 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, cd. Decreto Salvini) sia modificata nel senso di inserire disposizioni volte a escludere dal perimetro di applicazione della legge i minori non accompagnati e separati dai genitori, prevedendo, tra l’altro, anche agevolazioni per l’accesso al sistema di asilo a vantaggio dei minori. Inoltre, devono essere accolti in strutture adeguate. Lo Stato deve facilitare il ricongiungimento familiare e prevedere un meccanismo che permetta il passaggio da situazioni di irregolarità a uno status regolare.

Malgrado l’avvenuta ratifica della Convenzione – osserva il Comitato – che persistono ritardi nell’emanazione dei decreti attuativi funzionali ad assicurarne l’effettiva applicazione. Non mancano, altresì, preoccupazioni per alcuni ambiti. Tra gli interventi immediati, l’eliminazione dal codice civile di tutte le eccezioni che permettono il matrimonio a minori di 18 anni. Non solo. Ad avviso del Comitato, l’Italia deve intervenire immediatamente per garantire una rapida assegnazione di risorse necessarie a impedire che i minori si trovino in una situazione di povertà e subiscano i continui effetti negativi delle misure di austerity e per assicurare l’applicazione concreta del principio di non discriminazione. E questo anche tra le diverse regioni italiane. Da garantire, inoltre, l’educazione e la tutela di minori richiedenti asilo o rifugiati, nonché in generale misure di supporto per i minori migranti.

Tra gli interventi da predisporre, anche misure in materia di cittadinanza al fine di impedire situazioni di apolidia di minori e la ratifica della Convenzione europea sulla cittadinanza del 1997. Ancora una volta, poi, il Comitato chiede all’Italia l’adozione di una legge che vieti esplicitamente il ricorso a forme di punizione corporale, anche se considerate lievi.

Per il Comitato, inoltre, è necessaria l’istituzione di una commissione di inchiesta che esamini tutti i casi di abusi sessuali commessi da preti nei confronti di minori. 

Questo è quanto scrive la prof. Castellaneta sul suo blog.

Una richiesta, quella del Comitato ONU, che conferma, purtroppo ancora una volta, una costante violazione da parte dell’Italia della Convenzione posta a difesa dei minori, anche se, sul piano della propaganda spicciola, questo governo assicura di avere a cura le esigenze dei minori, soprattutto in materia di abusi.

Maggio 2019

Fonte: www.marinacastellaneta.it

Nota a cura

Avv. E. Oropallo

Dura condanna dell’Italia da parte della corte EDU per violenza contro le donne

Con la sentenza del 2 marzo 2017 (ricorso n. 41237/14, AFFAIRE TALPIS c. ITALIE), la Corte europea dei diritti dell’uomo ha inflitto una dura condanna all’Italia.

A rivolgersi a Strasburgo, una donna che nel corso degli anni era stata vittima della violenza del marito. A settembre 2012 la donna aveva presentato una denuncia per violenza e chiesto un intervento delle autorità ma, successivamente, aveva attenuato le accuse. L’anno dopo, nuova denuncia, con una lite tra la donna e l’uomo culminata con l’uccisione del figlio, che aveva cercato di difendere la madre, da parte del marito, condannato all’ergastolo, in un procedimento con rito abbreviato, condanna confermata in appello.

Per la Corte europea, le autorità nazionali non hanno fornito un adeguato supporto alla vittima di violenza domestica, costringendo la ricorrente a vivere in una situazione di grande insicurezza e vulnerabilità fisica e psichica.

Evidente così il mancato rispetto dell’articolo 2 che impone agli Stati obblighi positivi e, l’adozione di misure necessarie alla protezione degli individui che, invece, nel caso di specie, non erano state adottate. La Corte, inoltre, ricorda la gravità della piaga della violenza contro le donne in Italia.

Basti pensare – osserva Strasburgo – al rapporto del Comitato Onu per l’eliminazione delle discriminazioni verso le donne, con il quale è stato chiesto al Governo di “attuare misure complete per affrontare la violenza contro le donne” e un’adeguata protezione a coloro che subiscono violenza.

La Corte ha posto l’accento sulla gravità e sull’ampiezza del fenomeno drammatico della violenza domestica nei confronti delle donne, aggravata “da un’attitudine socioculturale di tolleranza” che continua a persistere. Accertate le gravi violazioni della Convenzione da parte dell’Italia, i giudici hanno concesso alla donna trenta mila euro per i danni morali subiti e dieci mila per le spese sostenute.

Maggio 2019

Fonte

www.marinacastellaneta.it

Nota a cura

Avv. E. Oropallo

Il divieto di autodifesa dell’avvocato nei processi penali è compatibile con il principio dell’equo processo

È quanto sancito dalla Grande Camera, Corte EDU, caso Correia de Matos c. Portogallo (ric. 56402/12) del 4 aprile 2018.

Il caso. Protagonista della vicenda è un avvocato e revisore dei conti che fu sospeso dall’albo dal 1993 al 2016, perché per le leggi interne le due professioni sono incompatibili e gli fu vietato l’esercizio forense pena una sanzione disciplinare. Vane le richieste di autodifendersi e le proteste contro l’imposto difensore d’ufficio: la legge e la prassi portoghesi, anche della Consulta, sono chiare nel vietare l’autodifesa nei processi penali. La CEDU già nel 2001 aveva rigettato un suo analogo ricorso perché manifestamente infondato.

È stato di diverso avviso il Comitato per i diritti umani dell’ONU che nella Raccomandazione n.1123/02 e nel Commento generale n. 32/07 ha evidenziato come, in base all’art.14 §.3 (equo processo, assistenza tecnica e parità delle armi) del Patto internazionale sui diritti civili e politici, il diritto all’autodifesa sia una pietra miliare della giustizia, perciò non soggetto a restrizioni. L’imposizione di un avvocato d’ufficio, in base alla legge interna, è sproporzionata e va oltre quanto necessario in una società democratica. S’invitò – invano – il Portogallo a rivedere tale divieto. Nel decidere il caso la Corte EDU ha tenuto conto del quadro giuridico internazionale.  Il regolamento interno della Corte penale internazionale consente all’imputato di difendersi da solo.

Il diritto all’equo processo è sancito dall’art. 47 Carta di Nizza, speculare all’art. 6 Cedu. La Direttiva 2013/48 / UE (diritto di avvalersi di un difensore nei processi penali, nei procedimenti relativi al MAE etc.): impone l’assistenza tecnica da parte di un legale di fiducia o d’ufficio, cui l’imputato può rinunciare espressamente ex artt. 3 e 9.

A livello di diritto comparato la maggior parte degli Stati del COE (Council of Europe ndr.) consente l’autodifesa dell’imputato anche se, nella maggior parte dei casi, questa facoltà può essere soggetta a restrizioni in base al grado di giurisdizione, alla complessità del caso, alla gravità dell’accusa e alla capacità dell’imputato di sapersi difendere da solo.

L’avvocato può difendere chiunque, meno che se stesso. Il diritto all’autodifesa non è assoluto e può dunque essere limitato dal legislatore nazionale cui è riconosciuto un ampio margine discrezionale di adottare misure ed emanare disposizioni concernenti l’onere della difesa tecnica per assicurare una buona amministrazione della giustizia e l’esercizio dei diritti alla difesa, tra cui quello di avere una difesa efficace ed effettiva, oltre a quello della parità delle armi.
In breve, pur non essendoci uniformità sul punto a livello di diritto comparato, sono questi i principi cardine cui deve essere ispirata l’azione del Legislatore e della CEDU in materia: l’imputato deve avere la possibilità di presiedere alle udienze, rilasciare libere dichiarazioni, presentare memorie, essere difeso da un avvocato di fiducia o d’ufficio e, se non può permetterselo, deve poter accedere al gratuito patrocinio.

Alla luce di ciò la CEDU ha ritenuto sufficienti e pertinenti le ragioni del contestato divieto, anche se alcuni giudici, facendo parte della Corte, hanno dichiarato il loro dissenso. A nostro avviso, anche se il nostro ordinamento dispone l’obbligo della difesa tecnica, quando l’imputato risulta essere un avvocato, non gli si può negare di avere le conoscenze giuste per difendersi da solo per cui la vicenda potrebbe essere ridiscussa successivamente.

Nel nostro passato non lontano, si sono avuti dei casi in cui gli imputati hanno rifiutato il difensore d’ufficio che la Corte aveva assegnato chiedendo di difendersi da soli. Richiesta che venne respinta dalla Corte che, anche in quel caso, ribadì il principio che l’imputato non può rinunciare alla difesa tecnica, pur in presenza di un rifiuto espresso.

Si trattava certo di un caso diverso, isolato ma che potrebbe riaprire la discusione sull’argomento, anche perché – come abbiamo visto – il regolamento della Corte penale internazionale consente all’imputato di difendersi da solo, come anche riconosciuto dalle disposizioni ONU e, dunque, non è detta l’ultima parola su questa vicenda.

Maggio 2019

Fonte: D&G

Commento a cura

Avv. E. Oropallo

Revoca o rifiuto dello status di rifugiato

Alcuni cittadini extracomunitari – titolari già dello status di rifugiato o che ne avevano fatto richiesta – si son visti i primi revocare lo status, i secondi, negare il riconoscimento del medesimo sulla base delle disposizioni della direttiva 201/95/UE che consentono l’adozione di misure del genere quando le persone rappresentano una minaccia per la sicurezza o, essendo state condannate per un reato particolarmente grave, per la Comunità dello Stato membro ospitante.

Gli interessati hanno contestato il provvedimento innanzi l’AG competente che ha rimesso alla Corte di Giustizia di stabilire se tali disposizioni fossero non conformi alle disposizioni della Convenzione di Ginevra del 12 dicembre 2013 relativa allo status di rifugiati.

La Corte ha riconosciuto che “anche se la direttiva stabilisca un sistema di protezione dei rifugiati specifico dell’UE, essa è fondata nondimeno sulla Convenzione di Ginevra e mira a garantirne il pieno rispetto”.

In effetti, scrive la Corte, “la revoca dello status di rifugiato o il diniego del riconoscimento – disposte dalla direttiva UE (ndr.) – non hanno l’effetto di far perdere lo status di rifugiato ad una persona che abbia un timore fondato di essere perseguitata nel suo paese d’origine” in quanto continua a godere di un certo munero di diritti della Convenzione di Ginevra “ai quali la direttiva fa espresso riferimento nonché dei diritti previsti da tale convenzione il cui godimento esige non una residenza regolare, bensì la semplice presenza fisica del rifugiato nel territorio dello Stato ospitante” concludendo che “le disposizioni in questione sono conformi alla Convenzione di Ginevra ed alle norme della Corte del TFUE che impongono il rispetto di tale convenzione”.

(CGUE – sentenza del 14.5.2019 cause riunite c. 8209; 391/16; 77/16 e l. 78/17).

Fonte D &G

Maggio 2019

Nota a cura

Avv. E. Oropallo

Entra in vigore il regolamento ue sul controllo degli investimenti esteri

E’ entrato in vigore, il 10 aprile 2019, il regolamento n. 2019/452 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 19 marzo 2019, che istituisce un quadro per il controllo degli investimenti esteri diretti nell’Unione.

L’obiettivo è la difesa degli interessi strategici dell’Unione europea attraverso un sistema di controllo sulle acquisizioni di attività strategiche europee da parte di società extra Ue, tenendo conto che l’Unione europea è la principale destinataria mondiale degli investimenti esteri diretti. Tra gli altri obblighi, gli Stati sono tenuti a notificare alla Commissione europea, entro il 10 maggio 2019,  i meccanismi nazionali di controllo già predisposti. Sono 14 i Paesi membri già dotati di meccanismi di questo genere, ma – osserva la Commissione – anche gli altri Stati stanno procedendo all’adozione di sistemi di controllo. Il regolamento sarà pienamente applicabile dall’11 ottobre 2020.

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Aprile 2019

Corte Suprema Usa: no all’immunità assoluta per le organizzazioni internazionali

La Corte suprema degli Stati Uniti, con la sentenza depositata il 27 febbraio nel caso Jam v. International Finance Corporation (n. 17-1011, Jam e altri), ha affrontato la questione dell’immunità dalla giurisdizione delle organizzazioni internazionali. Per la Corte, un’organizzazione può essere citata in giudizio dinanzi ai tribunali degli Stati Uniti se l’attività rientra tra quelle iure privatorum e non iure imperii, con una soluzione analoga a quella prevista per l’immunità degli Stati esteri.

La vicenda ha preso il via dal prestito concesso dall’International Finance Corporation (IFC) a una società indiana, per favorire la costruzione di una fabbrica di carbone a Gujarat, in India. Alcuni cittadini indiani, colpiti dall’inquinamento atmosferico, dell’acqua e del suolo avevano citato in giudizio negli Stati Uniti l’IFC. La Corte distrettuale aveva respinto l’azione affermando l’immunità assoluta dalla giurisdizione dell’organizzazione internazionale, con sede a Washington. Di diverso avviso la Corte suprema che ha annullato il verdetto della Corte distrettuale e rimesso il caso ai giudici di appello del distretto della Columbia.

E’ vero che quando fu adottato L’International Organizations Immunities Act, nel 1945, l’immunità concessa era di carattere assoluto in quanto era previsto che le organizzazioni internazionali godessero della stessa immunità degli Stati, ma nel 1976 il quadro, con l’adozione del Foreign Sovereign Immunities Act, è cambiato perché uno Stato estero può essere citato in giudizio per le attività commerciali.

La Corte non ha accolto la tesi dell’IFC circa la diversità tra immunità degli Stati e immunità delle organizzazioni internazionali, chiarendo che se un ente ha bisogno dell’immunità assoluta può prevederlo in un trattato                    per cui ha respinto la concessione dell’immunità per le attività commerciali.  

In effetti, la IFC è un’agenzia della Banca Internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo. Fondata nel 1956 essa ha per scopo di promuovere lo sviluppo dell’industria attraverso l’erogazione di appositi investimenti e la mediazione verso il mercato internazionale del credito.

Un’attività a volte svolta in collaborazione con gli altri organismi appartenenti al gruppo della “Banca Mondiale” operando però principalmente in maniera indipendente essendo un organismo sia legalmente che finanziariamente autonomo. Motivo per cui, correttamente, la Corte ha escluso che potesse avvalersi dell’immunità, trattandosi di un’attività commerciale.

Aprile 2019

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Nota a cura Avv. E. Oropallo

Parere dell’Agenzia Ue sui diritti fondamentali sulla situazione negli hotspots

Su richiesta del Parlamento europeo, l’Agenzia ha aggiornato il parere del 2016 riguardante la situazione in Grecia e in Italia, anche per verificare se i 21 punti indicati nel parere siano stati attuati. Questo per monitorare il funzionamento effettivo del sistema ed assicurare condizioni dignitose per chi arriva sul territorio europeo. 

In via generale, ha accertato l’Agenzia, entrambi i Paesi agiscono con ritardo a far fronte alle esigenze dei minori stranieri non accompagnati, per cui evidenzia l’importanza di rafforzare la protezione dei minori, troppo spesso tenuti in condizioni non appropriate. Non solo. I migranti non riescono ad ottenere tutte le informazioni necessarie, in particolare per accedere alla domanda di protezione internazionale.

Indispensabile anche l’applicazione di misure di salvaguardia per le procedure di allontanamento. In conclusione, con riferimento a 10 settori nei quali era richiesto un intervento effettivo, poco è stato fatto.

In realtà, è peggiorato il trattamento riservato ai migranti che sbarcano sulle nostre coste. Un disagio crescente anche alla luce delle nuove disposizioni emanate in Italia che hanno di fatto travolto ogni principio di legalità, pur di contenere il fenomeno migratorio, ricorrendo anche alla esternalizzazione delle frontiere mediante accordi con paesi del Nord Africa, in particolare con la Libia, paese che non riconosce i trattati internazionali per cui non consente neppure agli ispettori ONU di controllare le condizioni in cui sono tenuti gli immigrati in Libia. Oggi più che mai in pericolo di vita anche alla luce delle operazioni belliche in corso nel territorio libico.

Aprile 2019

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Nota a cura avv. E. Oropallo

L’attuazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea

In tema di relazione tra normativa europea e giurisdizione dei paesi membri, la prof. Castellaneta nel suo blog ricorda che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea ha molte potenzialità, ma gli Stati la utilizzano ancora troppo poco, malgrado sia in vigore da nove anni.

Anche i tribunali nazionali – scrive – troppo spesso, non fanno riferimento alla Carta dei diritti fondamentali e questo anche nei casi in cui debba essere applicato il diritto dell’Unione. Di qui la richiesta di maggiori attività formative per giudici e operatori del diritto al fine di rafforzarne l’utilizzo nei provvedimenti in cui il diritto dell’Unione sia applicabile. Tra i dati positivi, il crescente riferimento alla Carta nei rinvii pregiudiziali: tra il 2010 e il 2017 in 392 casi di rinvio pregiudiziale vi è stato il richiamo alla Carta.

La maggior parte dei rinvii pregiudiziali è arrivata dall’Italia, seguita dalla Germania, dal Belgio, dall’Austria, dalla Spagna e della Romania. Tuttavia, in percentuale rispetto al totale dei rinvii pregiudiziali per ogni Stato membro è la Slovacchia a detenere il primato”.

Ora, a parte il caso del rinvio pregiudiziale, ormai diventato pratica corrente anche nei Tribunali dei paesi europei, resta il dato, certamente grave, del ritardo nell’applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’UE. Forse anche perché spesso si considera la Carta come un’alternativa alla Carta EDU.

Ma si tratta di una opinione errata, dovuta in gran parte alla scarsa conoscenza – diffusa anche nel nostro settore professionale- della normativa UE che può essere applicata direttamente nel processo italiano a differenza del ricorso alla Corte EDU, ammissibile solo in caso di esaurimento di rimedi nella giurisdizione interna. Resta, dunque, la necessità, di diffondere la conoscenza del diritto dell’UE anche all’interno della nostra categoria. Tanto più quando si tratta di preparare una nuova generazione di giuristi in vista anche di una totale integrazione della giurisdizione interna con quella europea.

Febbraio 2019

www.marinacastellaneta.it

Nota a cura

Avv. E. Oropallo

Il caso Knox innanzi alla CEDU

La Corte EDU di Strasburgo con sentenza del 24 gennaio 2019

ha recentemente condannato lo Stato Italiano a risarcire Amanda Knox per aver violato i diritti della difesa                                            (ric. n. 76577/13).

Ricorso che la Knox aveva presentato subito dopo essere stata scagionata dall’accusa di omicidio della studentessa Meredith Kercher avvenuto in un’abitazione di Perugia. In particolare, la ricorrente denunziava la violazione del principio del giusto processo ai sensi art. 6 della Convenzione europea, per la mancata presenza dell’avvocato difensore al primo interrogatorio avvenuto nella Caserma della Polizia alle due di notte del 6 novembre 2007.

Ancora, lamentava la Knox la violazione del diritto di difesa ai sensi art. 48 della Carta dei Diritti Fondamentali UE per aver utilizzato lo staff investigativo, nel corso dell’interrogatorio, un interprete che non si era limitato al solo compito di traduzione e

infine per violazione del divieto della tortura, di cui agli artt. 3 CEDU e 4, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE.

La Corte ha accertato la sussistenza della violazione del principio del giusto processo e del diritto di difesa, escludendo, comunque, l’ipotesi più grave del trattamento inumano e degradante che aveva lamentato.

Di particolare interesse, il ruolo avuto dall’interprete durante l’interrogatorio che si è svolto alla presenza di tre agenti della polizia e di un dipendente della stazione di polizia che fungeva da interprete. A giudizio della Corte EDU, si è trattato di un comportamento “anomalo” in quanto l’interprete non si sarebbe limitato a tradurre ciò che diceva la Knox e le domande degli inquirenti, ma avrebbe svolto un ruolo di “mediatore” e “suggeritore” in totale violazione della Convenzione, per cui la Corte condannava lo Stato italiano a risarcire la ricorrente l’importo di € 10.400,00 a titolo di danni morali, oltre al ristoro delle spese legali liquidate in € 8.000,00.

Quello che rileva, nella sentenza, non è tanto la misura del risarcimento quanto il comportamento degli investigatori.

Se questi sono i sistemi investigativi utilizzati in un caso delicato, come quello che ha tenuto banco per diversi anni nelle cronache giudiziarie, ebbene bisogna malinconicamente riconoscere che c’è ancora molto da lavorare per rendere più efficiente il sistema e assicurare il rispetto dei diritti dell’indagato in tutte le fasi del procedimento penale.

Secondo le stime della Suprema Corte e della Corte dei Conti, si spendono milioni di euro per le intercettazioni e molto meno per la preparazione degli addetti al settore investigativo della polizia.

Non sarebbe male ricordare che anche un sospettato – fino a prova contraria – non può essere trattato come fosse già colpevole per cui anche nei suoi confronti bisogna rispettarne i   diritti previsti dalla normativa convenzionale e dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE. La vicenda knox e dell’altro coimputato è esemplare: dopo anni di indagini ed un lungo processo sono stati entrambi scagionati dall’accusa di omicidio.

Questa volta, come in tante altre vicende, essenziale è stato il ruolo della difesa che ha saputo ribaltare quello che le cronache giudiziarie avevano etichettato come un delitto senza storia.

Febbraio 2019

(Avv. E. Oropallo)

Caso Provenzano – sentenza CEDU condanna l’Italia per violazione art. 3 della convenzione

Con sentenza recente la Corte EDU, Sez. I, del 25.9.2018 – Provenzano / Italia ric. n. 3508/13 ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 che stabilisce che “nessuno può essere sottoposto a torture né a pene o trattamenti inumani o degradanti”. Brevemente, nell’esercizio della propria potestà punitiva, lo Stato ha l’obbligo di assicurare che ogni prigioniero sia detenuto in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione non aggiungano ulteriore afflizione alla pena detentiva e soprattutto, tenuto conto delle esigenze della detenzione, vigilare che la salute ed il benessere dei detenuti siano assicurati dignitosamente. Più chiaramente, se la pena consiste nella privazione della libertà dell’individuo, non c’è ragione di aggiungere ulteriori limitazioni, aggiungendo afflizione ad altra afflizione.

Con la sentenza sopra richiamata, la Corte ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 3 CEDU, con riferimento al provvedimento di proroga del regime di cui all’art. 41-bis ord. penit. nei confronti di Berardo Provenzano il 23.3.2016, qualche mese prima della sua morte, avvenuta il 13.7.2016. La Corte ha accolto solo parzialmente il ricorso presentato dal figlio del Provenzano, facendo riferimento alla insufficiente valutazione, nel provvedimento di proroga, del deterioramento delle funzioni cognitive del detenuto non rinvenendo alcuna violazione né nell’applicazione dell’art. 41 bis né rispetto alla precedente proroga del regime differenziato – pur avvenuta in presenza di un deterioramento delle condizioni cognitive – in quel caso, però, presa adeguatamente.

In effetti, il ricorrente aveva proposto reclamo ai sensi art. 41 bis c. n. quinquies ord. penit. contro due decreti di proroga del regime differenziato, uno nel marzo 2014 e il successivo nel marzo 2016 motivati dalla circostanza che, per il grave deterioramento del suo stato di salute, era venuta meno la possibilità – posta a base dell’applicazione del regime speciale – che Provenzano – se collocato in regime detentivo ordinario – mantenesse i collegamenti con l’associazione.

Reclami entrambi rigettati dal Giudice nazionale per cui, esauriti i rimedi interni, il ricorrente, a mezzo del figlio, nominato suo amministratore di sostegno, si rivolgeva alla Corte EDU sostenendo la violazione dell’art. 3 della Cedu sotto due profili sia ritenendo incompatibile il regime speciale con le condizioni di salute del padre e l’inadeguatezza delle cure ricevute e dall’altra quello concernente la perdurante sottoposizione al regime di cui all’art. 41 bis. ord. penit. ritenuta non più giustificata, in ragione del significativo deterioramento delle sue funzioni cognitive. Per accertare la violazione dell’art. 3 CEDU, la Corte riteneva che “sottoporre un individuo a una serie di restrizioni aggiuntive, imposte discrezionalmente, senza fornire sufficienti e rilevanti ragioni basate su una valutazione individualizzata di necessità, minerebbe la sua dignità umana e integrerebbe una violazione del diritto dell’art. 3 CEDU”.

Nel caso esaminato, però la Corte esclude che vi sia stata violazione sia per l’applicazione al Provenzano del regime speciale, ritenendolo compatibile con il suo stato di salute per quanto riguarda la proroga del 26.3.2014 emessa dal Tribunale di Sorveglianza che l’aveva concessa dopo un ampio esame della documentazione medica, non potendosi escludere all’epoca una possibilità per il ricorrente, in caso di regime ordinario, di poter comunicare con l’esterno.

Rispetto alla proroga del 23.3.2016, la Corte EDU perviene ad una conclusione opposta in quanto il provvedimento ministeriale non prevede adeguamenti in considerazione dell’ulteriore peggioramento delle condizioni cognitive del ricorrente, riconoscendo dunque per questo aspetto potersi parlare di violazione dell’art. 3 che viene individuato “nel non aver dimostrato, nel provvedimento ministeriale, che il ricorrente, nonostante lo stato di deterioramento psichico, sarebbe stato in grado di comunicare con l’associazione, qualora fosse stato collocato in regime ordinario”. In base alla considerazione della Corte EDU, dunque, emerge con chiarezza che dì per sé il regime di cui all’art. 41 bis è legittimo ed è compatibile, anche se di lunga durata, nei limiti in cui sia giustificato da finalità di prevenzione.

Riafferma però la sentenza la necessità di una valutazione attuale e in concreto della pericolosità del detenuto, come, peraltro riconosciuto da una recente pronuncia della Cassazione nel caso Riina (Cass. pen. sez. I. 23.3.2017 n. 27766) con la quale veniva annullato il provvedimento di rigetto emesso dal Tribunale di Sorveglianza di Bologna per carenza di motivazione sotto il profilo di attualizzazione della valutazione sulla pericolosità del soggetto, in quanto esso non chiariva come tale pericolosità potesse considerarsi attuale, alla luce della sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute e del generale decadimento fisico del detenuto.

Contro la sentenza risorge insorge a modo suo il ministro dell’Interno Salvini “Baraccone europeo, per l’Italia decidono gli italiani e non altri”. Uscita infelice anche questa volta del Salvini che confonde la Corte EDU come espressione dell’UE mentre si tratta, come dovrebbe essere noto ad un ministro di Stato, che esso è emanazione del Consiglio di Europa, fondato nel maggio del 1949 con il Trattato di Londra, cui aderiscono oggi 47 Stati, compresi gli Stati che fanno parte dell’UE ma sottoscritto anche da altri Stati europei come la Russia o l’Ungheria.

Anche Di Maio, per non essere da meno rispetto al suo emulo, insorge: “Ma scherziamo? Non sanno di cosa parlano”. Bontà sua, crediamo che sia proprio il sig. Di Maio a non saper come stanno le cose. “L’argomento è tropo delicato per liquidarlo con frasi fatte” scrive – sulle colonne del quotidiano La Repubblica del 26.10 – Attilio Balzani il quale precisa che la questione posta a Strasburgo non è sulla validità dell’art. 41 bis ma se quel regime speciale potesse ritenersi applicabile al Provenzano nei suoi ultimi mesi di vita. “Uno Stato autorevole – si interroga il giornalista – ha davvero bisogno di seppellire i suoi nemici anche se sono incapaci di intendere e volere?. Franco La Torre – figlio di Pio- segretario regionale del Partito comunista ucciso a Palermo nel 1982 – e Dario Montana (fratello di Beppe, il poliziotto assassinato anche lui a Palermo nel 1985), si erano dichiarati favorevoli per marcare “la differenza fra noi che crediamo nello Stato e loro che sono mafiosi””. E’ d’accordo su questa posizione anche Giuseppe Ciminnisi – coordinatore nazionale dei familiari delle vittime di mafia dell’associazione “I cittadini contro le mafie e la corruzione”, il quale ammette che “l’applicazione di misure così dure nei confronti di un uomo – seppure un criminale – che a causa di un tumore e dell’Alzheimer era ridotto ad uno stato quasi vegetale e non più in grado di nuocere, rischia di apparire come una vendetta istituzionalizzata da parte di uno Stato che per decenni non ha saputo, o grazie alle collisioni di parte delle istituzioni, non ha voluto impedire e punire le ingiustizie”. “La forza di uno Stato, si misura nella giustizia, non nella vendetta ….alla quale io ho rinunciato confidando nello Stato…altrimenti, ricorrendo alle stesse barbarie, non potremmo dichiararci diversi da loro”. Parole queste che dovrebbero metter fine ad ogni speculazione di questo Governo, aggiungendo che a non aver letto la sentenza della Corte sia stato lo stesso, ahimè! ministro della Giustizia, che ha dichiarato che il regime dell’art. 41 bis non si tocca. Anche l’Unione delle Camere Penali Italiane, interviene sulla pronuncia della Cedu, scrivendo in un proprio documento che “le reazioni dell’attuale maggioranza al provvedimento della Cedu dimostrano ancora una volta che, in tema di giustizia, il Governo cerca il facile e immediato consenso popolare, senza alcuna analisi interpretativa e di sistema…rappresentando, dunque, l’associazione il totale dissenso e la forte preoccupazione per le dichiarazioni dei due vice premier Di Maio e Salvini”. “Uno Stato democratico – si legge nel comunicato – dà prova della sua forza proprio quando dimostra di saper rispettare i diritti anche del più feroce dei suoi nemici”, esprimendo sdegno e sbigottimento a fronte di tali scomposte reazioni nei riguardi di un provvedimento di un Organo Istituzionale Internazionale che condanna giustamente l’Italia per aver inflitto torture ad un uomo privo della capacità di pensare e muoversi”.

Come giustamente scrive Matteo Maria Orlando in un suo commento pubblicato sul sito “https://midnightmagazine.org” “appare ingiustificabile l’ulteriore e straordinaria compressione delle garanzie individuali discendenti dal 41-bis, che dovrebbe trovare applicazione solo in costanza di pericolosità sociale…..Dovrebbe essere istanza collettiva, nonché urgenza trasversale a tutte le forze politiche, la pretesa di una legge decisa ma non cinica, giusta e non crudele, autorevole ma non tirannica”.

Novembre 2018

(Avv. E. Oropallo)