Ricorso per autorizzazione alla vaccinazione di minore tra genitori divorziati in dissenso tra loro

Il Tribunale Civile di Lagonegro in composizione collegiale ha autorizzato la madre (il padre si opponeva) a fare vaccinare la figlia 17enne per covid19 valorizzando le pronunce delle Corte Edu e del Consiglio di Stato affermando anche che la procedura per introdurre la domanda è quella di cui all’art. 709-ter del codice di procedura civile.

Filippo Poggi

Protezione umanitaria e permesso di soggiorno per calamità

Il principio è stato affermato dalla I Sezione Civile della Suprema Corte con l’ordinanza n. 2563/20, depositata il 4 febbraio.

Il caso. Il Tribunale di Ancona aveva respinto il ricorso proposto da un cittadino del Bangladesh avverso il provvedimento con cui la Commissione territoriale aveva a sua volta rigettato la domanda di protezione internazionale proposta, con esclusione della sussistenza dei presupposti per la protezione umanitaria. Dal racconto del richiedente non risultano infatti circostanze di pericolo richieste dalla Convenzione di Ginevra, fermo restando che la generica gravità della situazione socio-economica del paese di origine e la mancata possibilità di esercitare le libertà democratiche non si traducono nel timore di una grave persecuzione.

Secondo la giurisprudenza, tra i motivi per cui è possibile riconoscere la protezione umanitaria non rientrano né l’integrazione sociale e lavorativa in Italia, né le condizioni di indigenza o i problemi di salute “necessitando, invece, che tale condizione sia l’effetto della grave violazione dei diritti umani subita dal richiedente nel Paese di provenienza” (cfr. Cass. Civ. n. 28015/17). E’ dunque necessaria un’effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente per verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione dei diritti umani “al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale”.

Il catalogo dei “seri motivi”che possono dunque fondare la richiesta di protezione umanitaria risulta aperto, non essendo spazi tipizzati o predeterminati dal legislatore neppure in via esemplificativa.

Calamità. In tale contesto, deve essere inserito l’art. 20-bis d.lgs. n. 286/1998 (inserito dal d.l. n. 113/2018, conv. in l. n. 132/2018) che prevede espressamente il permesso di soggiorno per calamità «quando il Paese verso il quale lo straniero dovrebbe fare ritorno versa in una situazione di contingente ed eccezionale calamità che non consente il rientro e la permanenza in condizioni di sicurezza».                   Il Collegio afferma dunque che «in sede di interpretazione evolutiva, tale norma non può non essere utilizzata dal giudice in chiave interpretativa al fine di chiarire anche il precetto elastico di cui all’art. 5, comma 6, d.lgs. n. 286/1998».

In conclusione, viene dunque affermato che “ai fini del riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per ragioni umanitarie, in sede di interpretazione evolutiva, ai fini della valutazione della vulnerabilità del richiedente – che nel proprio racconto ritenuto credibile abbia posto alla base della sua immigrazione ripetute alluvioni subite nel Paese di origine – va considerato altresì l’art. 20-bis d.lgs. n 286/1998 (inserito dal d.l. n. 113/2018, conv. in l. n. 132/2018) che ha espressamente previsto il permesso di soggiorno per calamità, da concedere “quando il Paese verso il quale lo straniero dovrebbe fare ritorno versa in una situazione di contingente ed eccezionale calamità che non consente il rientro e la permanenza in condizioni di sicurezza”, permesso che ha la durata di sei mesi, è rinnovabile per un periodo ulteriore di sei mesi se permangono le condizioni di eccezionale calamità suindicate, è valido solo nel territorio nazionale e consente di svolgere attività lavorativa, pur non potendo essere convertito in permesso di soggiorno per motivi di lavoro.

La Corte accoglie il ricorso e cassa il decreto impugnato con rinvio al Tribunale in diversa composizione.

21/2/2020

Fonte: www.dirittoegiustizia.it

Nota a cura Avv. E. Oropallo

La costituzione del fondo patrimoniale è un atto a titolo gratuito suscettibile di revocatoria

Lo ha chiarito la Suprema Corte con ordinanza n. 2077/20 depositata il 30 gennaio.

Il caso. La Corte d’Appello confermava la decisione del Tribunale che dichiarava inefficace l’atto notarile con cui la ricorrente, dichiarata fallita, aveva costituito, con il consenso del marito, un fondo patrimoniale nel quale aveva conferito un fabbricato ad uso abitativo. Avverso tale pronuncia, la ricorrente ricorre per cassazione lamentando la non ritenuta destinazione ai bisogni della famiglia del bene conferito nel fondo patrimoniale.

Fondo patrimoniale. Sul tema la Cassazione richiama il principio secondo cui «la costituzione del fondo patrimoniale per fronteggiare i bisogni della famiglia, anche qualora effettuata da entrambi i coniugi, non integra di per sé, adempimento di un dovere giuridico, non essendo obbligatoria per legge, ma configura un atto a titolo gratuito, non trovando contropartita in un’attribuzione in favore dei disponenti. Esso, pertanto, è suscettibile di revocatoria, a norma dell’art. 64 l. fall., salvo che si dimostri l’esistenza, in concreto, di una situazione tale da integrare, nella sua oggettività, gli estremi del dovere morale ».

Nella fattispecie, posta la manifesta infondatezza del motivo di ricorso per difetto di specificità e la sua inammissibilità in relazione all’onere della prova che grava sul fallito in sede di azione revocatoria per sottrarre alla massa il bene sul quale è stato costituito il fondo, la Cassazione conclude per il rigetto del ricorso.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it

Nota a cura avv. E. Oropallo

Cesena lì 21.2.2020

Uso distorto od incauto della richiesta di equa riparazione? Il conto da pagare va da euro 1.000,00 a 10.000,00

Gli Ermellini confermano la legittimità delle sanzioni stabilite dal legislatore volte a reprimere l’uso colposo del mezzo processuale.

Lo ha sancito la Corte di Cassazione con sentenza n. 6865/17 depositata il 16/3/2017.

Tutto parte da una istanza per equa riparazione. In I° grado il Tribunale respingeva la domanda ed, altresì, condannava il ricorrente a pagare la somma di € 3.400,00 alla Cassa delle Ammende ai sensi dell’art. 5-quater della l. n. 89/2001. Si rammenta che la norma testè richiamata dispone che «con il provvedimento che definisce il giudizio di opposizione, il giudice, quando la domanda per equa riparazione è dichiarata inammissibile ovvero manifestamente infondata, può condannare il ricorrente al pagamento in favore della cassa delle ammende di una somma di denaro non inferiore ad euro 1.000 e non superiore ad euro 10.000».

Ebbene, anche in Corte d’appello l’impugnazione del cittadino subiva la stessa sorte. A base della decisione della Corte territoriale vi era la circostanza che la domanda non era stata preceduta dalla presentazione della istanza di prelievo nel processo amministrativo presupposto, ex art. 54 d.l. n. 112/2008 e successive modifiche.

Al cittadino non rimaneva che proporre ricorso in Cassazione affidando la propria difesa ad un unico motivo di denuncia, costituito dalla violazione o falsa applicazione proprio dell’art. 5-quater della l. n. 89/2001 attesa anche la esorbitanza della somma liquidata. Più nello specifico, però, il ricorrente eccepiva l’illegittimità costituzionale di tale norma perché, a proprio dire, introduceva una sanzione che finisce per incidere negativamente sulla effettiva tutela giurisdizionale nonché per svuotare la relativa gratuità, prevista per i procedimenti di equa riparazione ex art. 10, comma 1, del d.p.r. n. 115/2002.

Tuttavia, anche gli Ermellini rigettavano le istanze di difesa del ricorrente. Viene evidenziato dalla pronuncia in esame che con la sentenza n. 7326/2015 e con il provvedimento n. 5433/2016 già i Giudici di piazza Cavour avevano avuto il modo di affrontare la questione della legittimità costituzionale del medesimo articolo risolvendolo in senso negativo.

Gli Ermellini asseriscono che è indiscutibile che la prevista possibilità di una sanzione processuale svolga una funzione deterrente, scoraggiando l’uso distorto oppure incauto della istanza indennitaria.

Ma tale effetto dissuasivo è del tutto compatibile con i parametri costituzionali e, in particolare, con il principio di effettività della tutela giurisdizionale.

L’uguale ed indiscriminato accesso a qualsivoglia pretesa, anche se azzardata oppure priva di qualunque possibilità di accoglimento, non è né può essere priva di costi sociali.

Fonte: www.dirittoegiustizia.it

23.12.2019

L’equo indennizzo è un credito cedibile

Lo stabilisce il Tar Trento, applicando un principio sancito dalla Cass. Civ. Sez. III n. 22601/13, ha inserito tra i crediti cedibili anche l’equo indennizzo visto che è un danno non patrimoniale dovuto alla giustizia lumaca. L’art. 69 R.D. n. 2440/23 sancisce che la cessione dei crediti vantati nei confronti della PA può avvenire anche senza il consenso del debitore, purché risulti da atto pubblico o da scrittura autenticata dal notaio notificata all’amministrazione centrale, ovvero all’ente o all’ufficio o al funzionario cui spetta ordinare il pagamento.

(Tar Trento, sez. Unica, sentenza n. 178/16; depositata il 30 marzo).

Fonte: www.dirittoegiustizia.it

23.12.2019

Ai sensi del d.m. n. 127/2004 i minimi tariffari sono inderogabili

Lo ribadisce la Corte di Cassazione con la sentenza n. 22742/2019 che trae origine dal ricorso presentato da una donna avverso la sentenza con cui la Corte di Appello di Roma, riformando solo parzialmente la precedente pronuncia di primo grado, aveva accolto il motivo di gravame relativo alla riduttiva liquidazione degli esborsi e delle spese di CTU sostenuti, respingendo tuttavia le altre censure proposte.
La ricorrente era stata coinvolta in un grave incidente stradale per il quale era stata riconosciuta in primo grado la colpa esclusiva del conducente di un altro autoveicolo.

Per quanto qui di interesse, la ricorrente ha dedotto la violazione e la falsa applicazione dell’art. 24 L. n. 794/1942 e delle tariffe professionali vigenti disciplinate dal d.m. n. 127/2004, assumendo che il valore della controversia era molto più alto di quello al quale i Giudici di merito avevano fatto riferimento per la liquidazione, a suo dire riduttiva.
Accogliendo il ricorso, la Corte di Cassazione ha precedentemente rilevato la pacifica applicabilità al caso di specie del d.m. n. 127/2004.

Gli Ermellini hanno precisato che, ai fini del rimborso delle spese di lite a carico della parte soccombente, il valore della controversia va fissato – in armonia con il principio generale di proporzionalità e adeguatezza degli onorari di Avvocato – nell’opera professionale effettivamente prestata, ove riconosca la fondatezza dell’intera pretesa.
Nel caso di specie, la liquidazione delle spese complessivamente effettuata nella sentenza di primo grado e oggetto di censura in appello, risulta erronea in quanto le somme indicate si collocano al di sotto dei minimi tariffari vigenti all’epoca della decisione in cui sussisteva il vincolo legale della loro inderogabilità, tenuto conto che, oltretutto, la Corte territoriale non ha esplicitato alcunché sulle ragioni degli inferiori importi liquidati.

In altre parole, i minimi tariffari devono ritenersi inderogabili a meno che la parte interessata, in caso di manifesta sproporzione, non presenti il parere del Consiglio dell’Ordine competente relativo a una inferiore liquidazione.

Fonte: D&G – Settembre 2019

Compenso avvocati: opposizione al decreto di liquidazione e dovere del giudice di chiedere i documenti

Il principio è stato espresso dalla Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 22795/19, depositata il 12 settembre, nell’ambito di un giudizio di opposizione al decreto di liquidazione delle spese di giustizia introdotto, ex art. 170 d.P.R. n. 115/2002, dal difensore di una parte ammessa al gratuito patrocinio. All’avvocato era stata liquidata una minima somma dei compensi richiesti, ed in particolare quelli relativi al solo giudizio di rinvio, non anche al giudizio dinnanzi alla Corte d’Appello, per cui il Tribunale riteneva che il legale non avesse fornito sufficiente documentazione probatoria.

L’avvocato impugnava la decisione trovando sul punto il favore dei Giudici della Suprema Corte, laddove affermano che nelle controversie di opposizione a decreto di pagamento delle spese di giustizia, ai sensi dell’art. 15 d.lgs. n. 150/2011, il Presidente può richiedere a chi ha provveduto alla liquidazione o a chi la detiene, gli atti, i documenti e le informazioni necessarie ai fini della decisione.

La locuzione “può”, tuttavia, non va intesa come mera espressione di discrezionalità, bensì come vero e proprio dovere, dove si riscontri una totale mancanza o insufficienza probatoria.

Nel caso in questione, il giudice ha errato per aver omesso di chiedere al ricorrente la necessaria documentazione probatoria, sull’assunto per cui la domanda sarebbe apparsa del tutto carente di prova.

Per questo motivo Corte di Cassazione accoglie il ricorso del legale cassando l’ordinanza impugnata.

Fonte: D&G – Settembre 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(In)applicabilità della sospensione feriale dei termini

Nei giudizi aventi ad oggetto il riconoscimento della protezione internazionale del cittadino straniero, l’inapplicabilità del principio della sospensione dei termini feriali, introdotta con l’art. 35-bis, comma 14, d.lgs. n. 25/2008, non trova applicazione rispetto ai ricorsi avverso decisioni delle Commissioni territoriali emesse e comunicate (o notificate) anteriormente alla data di entrata in vigore della norma citata.  

Così ha deciso la Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 1, ordinanza n. 22304/19; depositata il 5 settembre.

Ragioni della decisione

Il Tribunale di Venezia ha dichiarato inammissibile per tardività il ricorso proposto il 22/8/2017 da A.D. avverso il provvedimento notificato il 21/7/2017 della Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ai sensi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35, avuto riguardo alla non applicazione della sospensione feriale dei termini per tali procedimenti d’impugnazione, come disposto dall’art.35-bis, comma 14. Il predetto art. 35-bis, introdotto dal D.L. n. 13 del 2017.

Avverso questa pronuncia ricorre per cassazione il cittadino straniero che denuncia la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008.

Il ricorso, secondo l’avviso della Cassazione, è manifestamente fondato.

Nel nuovo regime introdotto dal D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 14, non opera più la sospensione feriale dei termini. Tale disciplina, come rilevato pure dal giudice a quo, si applica alle cause e ai procedimenti giudiziari sorti dopo il centottantesimo giorno dall’entrata in vigore del nuovo modello processuale, dovendosi, tuttavia, escludere un’applicazione retroattiva del regime derogatorio della sospensione dei termini feriali. Alla data di notifica del provvedimento impugnato il nuovo regime derogatorio della sospensione dei termini feriali non poteva essere applicato perché non ancora in vigore.

In conclusione, poiché alla data di notifica del provvedimento impugnato il regime applicabile era quello antevigente, fondato sulla sospensione dei termini feriali, il ricorso deve ritenersi proposto tempestivamente.

Fonte: D&G

Settembre 2019

Rito sommario speciale per le controversie sul compenso dell’avvocato

La Cassazione ribadisce che le controversie per la liquidazione del compenso dell’avvocato nei confronti del cliente, previste dall’art. 28 l. n. 794/1942, come modificata dall’art. 34 d.lgs. n. 150/2011, devono essere trattate con la procedura di cui all’art. 14 del d.lgs. n. 150/2011, anche nel caso in cui la domanda abbia ad oggetto l’an della pretesa.  

Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 4485/18, hanno infine fatto luce sul tema: dopo l’entrata in vigore dell’art. 14 d.lgs. n. 150/2011, le controversie relative al compenso dell’avvocato possono essere introdotte con ricorso ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c. con procedimento sommario speciale (disciplinato dagli artt. 3, 4 e 14 del d.lgs.) oppure ai sensi degli artt. 633 ss. c.p.c. e l’eventuale successiva opposizione deve essere proposta ex art. 702-bis c.p.c., integrato con la disciplina speciale degli artt. 648, 649, 653 e 654 c.p.c..

Fonte: D&G

Agosto 2019

Avv. E. Oropallo

La liquidazione delle spese deve sempre essere motivata

A ribadirlo è la Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 27234/18; depositata il 26 ottobre.

I criteri di determinazione delle spese devono essere fondati solo su fatti oggetto di giudizio.

La quantificazione delle spese deve avvenire sulla base delle tariffe in vigore al momento della liquidazione.

Sotto il profilo della quantificazione delle spese inoltre, ribadendo i principi affermati da Cass. SS.UU. n. 17405/2012 e ribaditi da ultimo da Cass. n. 30529/2017, ritiene la Corte che “si applicano i nuovi parametri …. ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del decreto”.

 Il Giudice del rinvio deve liquidare il compenso per tutti i gradi di giudizio, sulla base di una valutazione unitaria.

Fonte: D&G

Agosto 2019

Avv. E. Oropallo

Espulsione dello straniero: sospesa se il permesso di soggiorno è in attesa di rinnovo

Così il Supremo Collegio con l’ordinanza n. 5352/19, depositata il 22 febbraio.

In primo luogo la S.C. ricorda che in base all’art. 13, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 286/1998 l’espulsione dello straniero «è consentita» allorquando il permesso di soggiorno sia scaduto da più di 60 giorni «senza che sia intervenuta richiesta di rinnovo». Ribadisce, in secondo luogo la Corte, che l’efficacia esecutiva del provvedimento di diniego della protezione internazionale è sospesa allorquando il richiedente asilo propone ricorso avverso suddetto provvedimento. In caso di ricorso, dunque, il richiedente gode di una «situazione di non espellibilità fino all’esito della decisione sul ricorso».

In tal senso, rappresenta un ostacolo all’espulsione «la mera pendenza della domanda di rinnovo del permesso di soggiorno in accoglimento del ricorso».

Per tali ragioni il Collegio accoglie il ricorso con rinvio affinché il GdP, prima di decidere sull’espulsione dello straniero, accerti «la pendenza del giudizio di impugnazione del diniego di rinnovo del permesso di soggiorno».

Fonte: D&G

Agosto 2019

Avv. E. Oropallo

La domanda di addebito della separazione può essere introdotta con memoria integrativa

Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 17590/19, depositata il 28 giugno.

Il caso. La Corte d’Appello di Roma rigettava l’impugnazione avverso la sentenza del Tribunale nella parte in cui aveva addebitato al ricorrente la separazione personale dalla coniuge ritenendo tempestiva la domanda avanzata in primo grado da quest’ultima nella memoria integrativa di cui all’art. 709, comma 3, c.p.c..

L’ex marito ha impugnato tale decisione dinanzi alla Suprema Corte dolendosi per aver la Corte territoriale ritenuto tempestiva la domanda di addebito avanzata dalla donna per la prima volta in primo grado con memoria integrativa ex art- 709, comma 3, c.p.c. anziché nel ricorso introduttivo ex art. 706 c.p.c..

La Corte di legittimità ha già avuto modo di esprimersi sull’ammissibilità della domanda di addebito nel giudizio di separazione personale tra coniugi, affermando che «nella formulazione dell’art. 706 c.p.c. antecedente alle modifiche apportate dal d.l.,….non era necessario, ai fini della sua ammissibilità, che la domanda di addebito,….venisse ripetuta nella parte del ricorso introduttivo relativa alle conclusioni, restando sufficiente che la volontà di un coniuge di addebitare la separazione all’altro fosse riconducibile ad una lettura complessiva dell’atto» (Cass. Civ. n. 1278/14).

In conclusione, la sentenza in commento dichiara improcedibile il ricorso e cristallizza il principio secondo cui “in materia di separazione personale tra coniugi, la domanda di addebito della separazione può essere introdotta per la prima volta con la memoria integrativa di cui all’art. 709, comma 3, c.p.c. in ragione della natura bifasica del giudizio in cui alla finalità conciliativa propria del momento”.

Fonte: D&G

Luglio 2019

Nota a cura avv. E. Oropallo

Separazione e divorzio: la modifica delle statuizioni ammessa solo in caso di revisione

I provvedimenti presi dal Tribunale dei minori, avendo ad oggetto questioni e circostanze diverse, non intervengono sull’esecutività delle statuizioni, sulle questioni economiche, prese nell’ambito di procedimenti di separazione o di scioglimento del matrimonio.

Questo è il principio ribadito dalla Terza Sezione della Suprema Corte, con la sentenza n. 17689/2019, emessa nella Camera di Consiglio del 30 aprile 2019 e depositata il successivo 2 luglio

Il caso. La sentenza del Tribunale di Treviso aveva dichiarato cessati gli effetti civili del matrimonio del 13 gennaio 2010, ponendo a carico del padre un assegno o contributo per il mantenimento del figlio, contestualmente collocato presso la madre. A questa sentenza, era seguito un primo decreto del Tribunale per i Minorenni di Venezia, volto alla verifica della capacità genitoriale di entrambi i coniugi, che aveva affidato il figlio al Comune, collocandolo presso il padre. Nel frattempo, il Tribunale di Treviso aveva respinto l’opposizione a precetto promossa dal padre, motivandola con la considerazione che la collocazione del minore presso il padre non aveva privato il titolo esecutivo di efficacia e validità, poiché il debitore non aveva attivato il procedimento di cui all’art. 9 della legge n. 898/70, cioè quello relativo alla modifica delle condizioni di separazione o divorzio.

L’appello presentato dal padre fu rigettato dalla Corte di Appello di Venezia, stabilendo che le statuizioni patrimoniali conseguenti alla sentenza di cessazione degli effetti civili potessero essere inficiate dalle decisioni sulla potestà genitoriale, potendo invece essere modificate solo dal Tribunale competente ai sensi dell’art. 9, legge n. 898/70, con apposito ricorso da parte dell’interessato, come prospettato anche (fin dall’inizio) dalla tesi difensiva dell’opposta.

Contro la decisione della Corte di appello, presentava ricorso il padre: la Cassazione ha respinto il ricorso, confermando che, in caso di provvedimenti in tema di affidamento o collocazione della prole, nell’ambito di procedimenti di separazione personale o divorzio, la modifica da parte del Tribunale per i Minori del solo regime di collocazione del figlio non ha effetto automatico sulla precedente statuizione di un contributo economico per il suo mantenimento, adottata dal competente Tribunale.

Fonte: D&G

Luglio 2019

Nota a cura avv. E. Oropallo

Il termine per la presentazione dell’istanza di mediazione è perentorio?

Nella mediazione demandata, il termine di 15 giorni per la presentazione dell’istanza di mediazione è da considerarsi perentorio, e quindi se viene presentata in ritardo, determina l’improcedibilità della domanda. (Tribunale di Lecce, sentenza 3 marzo 2017)

Sentenza del Tribunale di Lecce riguardo alla questione, assai dibattuta, relativa alla perentorietà o meno del termine di 15 giorni, previsto dall’art. 5, comma 2, d.lgs. n. 28/10 e successive modifiche.

La questione è stata sino ad oggi piuttosto dibattuta. In realtà, le prime sentenze hanno negato che il termine fosse perentorio: si vedano ad esempio, Tribunale di Firenze, sez. III Civile, sentenza 4 giugno 2015, oppure Tribunale di Roma, sez. XIII.

Ha cominciato poi a farsi strada un’opinione diversa, a partire sempre dal Tribunale di Firenze (9 giugno 2015) a cui hanno fatto seguito altre pronunce, come quella del Tribunale di Cagliari dell’8 febbraio 2017, estensore Tamponi, secondo il quale «Il termine di quindi giorni per la presentazione dell’istanza di mediazione ha – in ragione della sua funzione e delle conseguenze decadenziali – natura perentoria, così che dal suo mancato rispetto consegue la necessità per il giudice di emettere una pronunzia di rito contenente la declaratoria di improcedibilità del processo».

L’implicita natura perentoria del termine si evince infatti dalla stessa gravità della sanzione prevista, che è l’improcedibilità della domanda giudiziale. 

Il Tribunale ha concluso nel senso che la mediazione tardivamente attivata rende improduttivo di qualsiasi effetto il relativo incombente, provocando gli stessi effetti del suo mancato esperimento e l’applicazione della sanzione della improcedibilità della domanda giudiziale.

La sentenza sopra richiamata non è l’unica in quanto altre ne sono seguite che hanno messo in discussione la perentorietà del termine.

La Corte di appello di Milano, con la sentenza del 7 giugno 2017, ha avuto modo di pronunciarsi sulle conseguenze del deposito “tardivo” (dopo i 15 giorni) della domanda di mediazione a seguito dell’invito contenuto nell’apposita ordinanza del giudice, sia quando rileva che la mediazione è obbligatoria e non è stata ancora avviata oppure quando rimette le parti in mediazione c.d. delegata (Corte di appello di Milano, sez. I Civile, sentenza n. 2515/17; depositata il 7 giugno).

La Corte di appello di Milano ha affrontato proprio la questione volta a sapere «se il mancato rispetto del termine di 15 giorni assegnato dal giudice per avviare il tentativo di mediazione, alla stregua della legge sulla mediazione processuale, possa ritenersi equivalente al mancato tentativo di mediazione nei casi in cui esso sia previsto come obbligatorio, situazione- quest’ultima- che certamente determina l’improcedibilità del giudizio ordinario».
La Corte di appello «considerando che il tentativo di mediazione è stato comunque esperito (con esito negativo), il giudice avrebbe dovuto rilevare che la condizione di procedibilità dell’azione giudiziale si era in ogni caso avverata, sebbene con ritardo rispetto al termine (ordinatorio) inizialmente assegnato. Ed infatti, il termine di quindici giorni non appare corrispondere a un termine processuale cui applicare il disposto di cui all’art. 154 c.p.c.».
Del resto, «lo stesso principio di effettività dei diritti, immanente al diritto di accesso alla giustizia cui si conforma la legge sulla mediazione, imporrebbe di non considerare come penalizzanti termini che la legge non definisce come perentori, e che chiaramente si devono definire come regolatori degli interessi in gioco».

Solo così si rispettano i principi del giusto processo. E ciò anche perché secondo la Corte di appello «un’interpretazione di diverso senso … aprirebbe  un  vulnus  nella  stessa  legge  di  mediazione  di  derivazione comunitaria che, se nella versione nazionale scelta dal legislatore interno ha previsto come obbligatorio il tentativo di mediazione nella fase preliminare di alcuni contenziosi civili, come imprescindibile condizione di procedibilità, rimane pur sempre una disciplina orientata a incentivare soluzioni delle controversie pacifiche e alternative alla giurisdizione, senza eccessiva compromissione del diritto di agire, il quale non potrebbe essere impedito frapponendo ulteriori ostacoli temporali o decadenze processuali incompatibili con il principio del giusto processo e con il diritto di libero accesso alla giustizia, di matrice costituzionale e convenzionale (v. art. 24 Cost e art. 6 Convenzione del diritti dell’Uomo )».

Per il momento, sembra che non vi sia stata ancora una pronuncia delle SS.UU. della Cassazione che abbia sciolto il nodo anche se la giurisprudenza di merito si è adeguata alla sentenza della Corte di Appello di Milano – sopra richiamata – che sembra aver meglio motivato la scelta del termine dilatorio.

Ultimamente anche il Tribunale di Trapani, con ordinanza del 06.02.2018, ha ribadito la non perentorietà del termine di 15 gg. per la promozione del procedimento di mediazione.

Fonte D & G

Nota a cura

avv. E. Oropallo

Giugno 2019

Niente pensione di reversibilità in assenza di assegno di divorzio

Lo sostiene la Corte di Cassazione nell’ordinanza 11129/19, depositata il 19 aprile.

La fattispecie. Una vedova faceva domanda per ottenere la pensione di reversibilità a seguito della morte del marito da cui aveva divorziato. La donna, infatti, sosteneva di essere titolare di un assegno di mantenimento, riconosciutole dal Tribunale in sede di giudizio di separazione.

Il Tribunale di Roma respingeva la domanda in quanto l’assegno previsto in sede di separazione, di natura alimentare e fondato sul presupposto della permanenza del vincolo coniugale, non poteva rivivere una volta dichiarata la cessazione degli effetti del matrimonio; inoltre, difettando dunque, in capo alla ricorrente la titolarità di un assegno di divorzio.

Tale decisione veniva confermata anche in Appello e dai Giudici di legittimità.

La Suprema Corte ammette che il coniuge rispetto al quale sia stata pronunciata la sentenza di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio e che non sia passato a nuove nozze, può vantare il diritto, in caso di morte dell’ex coniuge, all’attribuzione della pensione di reversibilità o di una quota di questa.

Gli stessi Ermellini aggiungono, però, che il riconoscimento di questo diritto in caso di concorso con altro coniuge superstite, presuppone che il richiedente, al momento della morte dell’ex coniuge, risulti titolare di assegno di divorzio giudizialmente riconosciuto dal Tribunale.

Data la mancanza di un assegno divorzile in favore della vedova a carico dell’ex coniuge, la domanda deve essere rigettata.

Fonte

D&G

Maggio 2019

Nota a cura avv. E. Oropallo

Sottrazione internazionale del minore

In caso di sottrazione internazionale del minore, se c’è il rischio fondato di pericoli fisici o psichici per il minore e se quest’ultimo ha anche espresso una volontà contraria al rientro, i giudici nazionali non sono tenuti a disporre il rimpatrio del minore ritenuto sottratto. La Corte di Cassazione, prima sezione civile, si è pronunciata con ordinanza n. 9767/19 dell’8 aprile, respingendo il ricorso di una madre che chiedeva il rientro in Germania della propria figlia. 

Per la Suprema Corte, che ha ritenuto infondato il ricorso, non si è verificata alcuna violazione della Convenzione dell’Aja sugli aspetti civili della sottrazione internazionale di minori del 25 ottobre 1980, ratificata dall’Italia con legge n. 64/1994, confermando una giurisprudenza costante che ritiene prevalente il diritto del minore rispettando nel caso di specie la sua opinione di voler restare in Italia.

Fonte

www.marinacastellaneta.it

Maggio 2019

Nota a cura avv. E. Oropallo

Necessario motivare la mancata audizione del minore infradodicenne

Interessante sentenza della Corte di Cassazione che ha ribadito l’obbligo del Giudice – già contemplato dalla Convenzione di New York sui diritti del fanciullo – di sentire il minore nelle procedure giudiziarie che lo riguardano o di motivare la sua mancata audizione.

Il caso. Nel 2017, il Tribunale di Vicenza, con decreto emesso ai sensi dell’art. 337-bis c.c., accogliendo parzialmente le istanze di una madre, nei confronti dell’altro genitore, disponeva l’affidamento condiviso dei due figli minorenni, con collocazione prevalente presso l’abitazione materna.

Il Tribunale accoglieva anche l’istanza materna di iscrizione di un figlio, infradodicenne, presso la scuola secondaria del Comune di residenza, più vicina all’abitazione della madre. L’uomo proponeva reclamo alla Corte d’Appello di Vicenza, la quale, con decreto, lo rigettava. Avverso il decreto della Corte territoriale l’uomo proponeva ricorso per Cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost. – stante la decisorietà e definitività del provvedimento.

Motivi di impugnazione. Con il primo motivo il ricorrente lamentava l’omessa audizione del figlio minore in merito alla scelta della scuola media da frequentare. Per l’uomo la Corte d’Appello aveva disatteso l’istanza di audizione diretta del minore, senza fornire spiegazione di tale decisione.

Con il secondo motivo il ricorrente si doleva del fatto che la Corte non avesse fornito motivazione sulla mancata audizione del figlio – trattandosi, invece, di un punto decisivo -, in relazione alla scelta della scuola, da valutarsi nell’interesse del minore.

Con il terzo motivo censurava il decreto impugnato per omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, con riferimento alla scelta della scuola media da frequentare da parte del minore.

Osservazioni della Corte. I Supremi Giudici, dopo aver rigettato la eccezione sollevata nel controricorso di inammissibilità del ricorso, essendo il decreto emesso dalla Corte d’Appello in sede di reclamo perché ha carattere decisorio e definitivo ed è, pertanto, ricorribile in Cassazione ai sensi dell’art. 111 Cost..
La Suprema Corte esamina poi congiuntamente i primi tre motivi di ricorso, ritenendoli connessi e li reputa fondati.

L’ascolto del minore di almeno dodici anni e anche di età inferiore, purchè dotato di capacità di discernimento, costituisce una modalità, tra le più rilevanti, di riconoscimento del suo diritto fondamentale ad essere informato e ad esprimere le proprie opinioni nei procedimenti che lo riguardano.

Ad avviso dei Supremi Giudici, la motivazione del giudice – che decide di non disporre l’ascolto – deve essere tanto più stringente quanto più il minore si avvicina all’età dei 12 anni, oltre la quale subentra l’obbligo legale dell’ascolto.

Nel decreto impugnato, invece, manca la motivazione giustificativa dell’omessa audizione diretta del minore, né sono esplicitate le ragioni per le quali è ritenuto superfluo l’ascolto diretto o contrario all’interesse del minore o le motivazioni di incapacità di discernimento dello stesso.

I Giudici della Prima Sezione civile della Corte di Cassazione, con l’ordinanza in oggetto, accolgono i primi tre motivi di ricorso e cassano il decreto impugnato rinviando alla Corte di Appello di Venezia anche per la decisione sulle spese del giudizio di legittimità.

Fonte

D&G

Aprile 2019

Nota a cura avv. E. Oropallo

Erronea diagnosi e conseguente nascita indesiderata: anche il padre ha diritto al risarcimento

Lo ha affermato la Cassazione, con ordinanza n. 2675/18, depositata il 5 febbraio.

La vicenda. Il Tribunale di Alessandria rigettava la domanda dell’attore volta ad ottenere, nei confronti di un Azienda Ospedaliera, il risarcimento dei danni subiti per l’erronea esecuzione dell’intervento di raschiamento uterino cui era stata sottoposta la moglie a seguito del quale la gravidanza era proseguita e si era conclusa con la nascita di una bambina, contro la volontà dei genitori. Il Tribunale, con sentenza confermata anche dalla Corte d’Appello, sosteneva che non fosse dimostrato che gli interessati avessero espresso la sicura volontà di abortire.
Motivazione del tutto illogica e apparente. La Suprema Corte            ha rilevato che la domanda attorea è stata respinta senza alcuna plausibile motivazione. Infatti, osserva la Cassazione, i Giudici di merito si sono limitati a dedurre l’insufficienza di prove ed ad affermare, illogicamente, che la nascita della figlia fosse una riprova del fatto che la madre non avesse intenzione di fare ricorso ad una interruzione volontaria di gravidanza.
Il diritto al risarcimento del padreDopo aver riscontrato la motivazione illogica ed apparente dei Giudici, la Suprema Corte, ha affermato un nuovo principio di diritto in tema di responsabilità medica per erronea diagnosi concernente il feto e conseguente nascita indesiderata.

Infatti la Cassazione ha disposto che il risarcimento dei danni derivanti dall’inadempimento delle struttura sanitaria all’obbligazione contrattuale spetta, non solo alla madre, ma anche al padre, «atteso il complesso di diritti e doveri che, secondo l’ordinamento, si incentrano sulla procreazione cosciente e responsabile, considerando che, agli effetti negativi delle condotta del medico ed alla responsabilità della struttura in cui egli opera, non può ritenersi estraneo il padre, il quale deve perciò, considerarsi tra i soggetti protetti»; da cui consegue il relativo diritto al risarcimento dei danni, «fra i quali deve ricomprendersi il pregiudizio di carattere patrimoniale derivante dai doveri di mantenimento dei genitori nei confronti dei figli».
In conclusione la Cassazione ha accolto il ricorso e cassato la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’Appello che nel riesaminare la controversia dovrà attenersi ai suddetti principi.

Fonte

D&G

Aprile 2019